Naomi Osaka torna in campo e ritrova il sorriso grazie alla figlia Shai
- 04/01/2024
- Popolazione Trend
La depressione, l’allontanamento dai campi, la nascita della figlia e il ritorno in campo. 517 giorni dopo l’ultima volta, Naomi Osaka riprende la racchetta in mano, ma il risultato sportivo passa in secondo piano.
A Brisbane, in Australia, dopo aver battuto la tedesca Tamara Korpatsch, la tennista ventiseienne è uscita contro Karolina Pliskova, ma poco importa: Naomi ha ritrovato il sorriso grazie alla sua nuova, specialissima tifosa Shai, avuta a luglio dal compagno rapper Cordoe.
La parabola della tennista giapponese, ex numero 1 al mondo, è una storia che dà speranza alle donne e alle mamme in difficoltà. Dopo l’eliminazione dagli Us Open nel 2021, il suo stop fece scalpore: “Sinceramente non so quando giocherò la mia prossima partita di tennis, penso che mi prenderò una pausa dal gioco per un po’”, aveva raccontato tra le lacrime spiegando di una grave depressione e di stati d’ansia.
Di certo, non la prima stella dello sport a fare coming out sulla delicata questione della salute mentale: Andre Agassi, Martina Hingis, Jennifer Capriati, tra i tennisti; Adam Peaty, Caeleb Dressel, Michael Phelps, tra i nuotatori. Più recentemente anche la ginnasta americana Simone Biles. Insomma, lo sport professionistico logora e reggere la pressione psicologica può diventare complicato anche per i campioni.
Ciò che caratterizza la storia di Naomi Osaka è il ruolo che la maternità ha avuto nel suo ritorno in campo.
La maternità ha cambiato il suo approccio alla vita
La tennista nipponica ha spiegato come la maternità abbia cambiato profondamente il suo approccio alla vita e dato nuove motivazioni sul campo: “Oggi mi sentivo come se Shai mi stesse guardando. Volevo fare del mio meglio per lei. Inoltre, verso la fine, quando firmavo gli autografi, ero più consapevole dei bambini. Ora li vedo in modo diverso perché sono mamma anch’io e riesco a immaginare Shai a quell’età. Voglio essere un buon modello per mia figlia”.
A pochi giorni di distanza dalle parole della senatrice Lavinia Mennuni secondo cui “la maternità deve tornare ad essere ‘cool’”, la tennista tocca corde intime preferendo l’aspetto emotivo a quello sociale: “Negli ultimi due anni in cui ho giocato prima di avere mia figlia, non ho restituito tutto l’amore che ho avuto – ha detto Osaka – Non credo sia stato giusto. Quando le persone mi danno positività e gioia, è giusto ricambiare. Sento davvero che è ciò che voglio fare adesso. Apprezzo davvero tutti quelli che mi offrono il loro supporto”.
Naomi Osaka spiega come la nascita della figlia Shai abbia impattato sulla propria percezione e sul rapporto con gli altri: “Dopo il parto ho capito quanto lavoro ci vuole per arrivare a questi livelli. Ho imparato ad amare molto di più il mio corpo. Mi sento più sicura di me come persona. Prima non avevo mai provato a parlare con altre giocatrici e credo di aver alzato un grosso muro. Ora interagisco di più con le persone. È davvero bello”.
Atlete e mamme
Quella di Osaka è una storia di maternità e di sport che ricorda altri precedenti: tra le italiane, la canoista Josefa Idem, le schermitrici Valentina Vezzali, Elisa Di Francisca e Mara Navarria, le atlete Elisa Rigaudo e Valeria Straneo, per citarne alcune. Strepitoso il ritorno della tennista Kim Clijsters, che si ritira per fare un figlio nel 2007, torna nel 2009 e vince gli Us Open. Impossibile non citare Serena Williams che, prima del ritiro definitivo è tornata dopo la prima maternità, ma ha mostrato come tenersi in forma durante la gravidanza mentre era in attesa del secondo figlio.
Nell’atletica ai Mondiali di Doha 2019 sono arrivati tre ori da tre mamme: la giamaicana Shelly-Ann Fraser-Pryce, la statunitense Allyson Felix e la cinese Hong Liu. Tutte e tre hanno continuato a collezionare ori e medaglie anche a Tokyo 2021.
Il caso di Alysia Montaño
La conciliazione tra maternità e lavoro non è facile a nessun livello, come dimostrano le frequenti dimissioni delle donne in seguito alla gravidanza e/o al parto. Nel mondo sportivo recente, c’è stato un caso che ha fatto particolare scalpore, quello di Alysia Montaño.
Nel 2014, la mezzofondista di punta della nazionale statunitense, vincitrice del bronzo negli 800 metri ai Campionati del mondo di atletica leggera nel 2013, rimase incinta. L’atleta informò subito Nike, il suo sponsor principale spiegando che intendeva continuare a gareggiare e allenarsi fino a quando le sarebbe stato possibile.
Il famoso brand, tuttavia, comunicò immediatamente all’atleta la decisione di sospendere il contratto per l’intero periodo in cui non avrebbe potuto competere, privandola quindi della sua principale fonte di guadagno (negli Stati Uniti gli atleti di atletica leggera non ricevono uno stipendio fisso, ma dipendono principalmente dagli sponsor e dai premi).
Non solo: a ciò si aggiunse la minaccia da parte del Comitato olimpico statunitense di revocarle l’assicurazione medica durante la pausa per la maternità. Alysia decise quindi di lasciare Nike come sponsor e passare ad Asics, ma fu comunque costretta a ridurre il tempo trascorso lontano dalla pista senza risolvere il problema. Anche il nuovo sponsor, infatti, Asics minacciò l’atleta di rescindere il contratto se l’atleta non fosse stata in grado di partecipare ai campionati di atletica, previsti circa sei mesi dopo il suo parto.
Una situazione frustrante, aggravata dalle clausole presenti nei contratti con le aziende, che impediscono agli atleti di parlare apertamente delle condizioni previste negli accordi. Clausole che hanno tenuto nascosta la vicenda fin quando Alysia ha deciso di rivolgersi al New York Times: “Nike Told Me to Dream Crazy, Until I Wanted a Baby”, “Nike mi ha detto di fare sogni da pazzi, finché non ho voluto un figlio”. Questo è il titolo dell’articolo che è uscito il 12 maggio 2019. Ovviamente, l’articolo ha suscitato molto clamore, tanto da costringere Nike a rivedere profondamente il trattamento delle atlete incinte: 12 agosto 2019, il colosso dell’abbigliamento sportivo ha annunciato di aver adottato una nuova politica per le atlete sponsorizzate, prevedendo uno stipendio e un bonus di 18 mesi durante la maternità.
Inutile dire che fino ad allora la maternità è coincisa con il taglio delle entrate per tantissime sportive, così come accade ancora oggi anche al di fuori dello sport.
Tornando ai giorni nostri, la storia di Naomi Osaka mostra come la maternità possa far tornare le mamme in campo più forti e più motivate di prima, persino dopo un periodo di grande depressione.
Perché questo diventi la normalità e non solo una bella storia da raccontare, però, è indispensabile l’impegno di aziende e politica: diventare madri non sia più una condanna economica per nessuna donna.
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