Part time imposto in oltre un caso su due, così penalizza la natalità
- 28/03/2024
- Popolazione
In Italia quasi un lavoratore su cinque ha un contatto part-time e, in oltre un caso su due, non per scelta. L’incidenza del part time involontario, denuncia la Cgil, è pari al 57,9%, la più alta di tutta l’Eurozona.
Se da una parte il contratto a tempo parziale è un alleato della demografia perché consente una maggiore conciliazione vita-lavoro, dall’altra rappresenta un ingombrante ostacolo economico a mettere su famiglia.
La chiave di volta non può che risiedere nella volontà del lavoratore: gli effetti dell’orario ridotto sono positivi quando il contratto part-time rispecchia una scelta del dipendente; negativi quando rappresenta un’imposizione. Uno scenario quest’ultimo così diffuso che il sindacato guidato da Maurizio Landini ha appena lanciato la campagna “La precarietà ha troppe facce. Combattiamola insieme” per “smascherare” tutte le situazioni in cui il contratto a tempo parziale viene imposto dal datore di lavoro al dipendente.
Il quadro da allarmante diventa illegale quando il contratto di lavoro a tempo parziale nasconde un contratto full-time, come spesso accade in Italia. Dissimulazione che pesa due volte: la prima sotto il profilo contributivo, la seconda sotto il profilo del guadagno immediato, dato che spesso i “finti contratti part-time” impediscono al lavoratore di arrotondare con una seconda entrata per mancanza di tempo a disposizione.
Situazione ancora più critica quando si parla dei giovani, già alle prese con prospettive pensionistiche disastrose. Gli stessi che, come ha spiegato Chiara Ferrari dell’Ipsos, vorrebbero avere due figli, salvo poi fare i conti con la realtà.
L’allarme dei sindacati
Un primo punto analizzato dai sindacati riguarda la flessibilità: “la realtà – denuncia la Cgil – evidenzia come per la stragrande maggioranza dei part time involontari le condizioni di estrema flessibilità nell’uso degli orari rendono i lavoratori persone che si devono adattare al ciclo e agli orari delle aziende”. Una realtà che contrasta la natura stessa della flessibilità, nata per avvicinare le aziende ai lavoratori, e non il contrario.
“Come emerge anche dall’attività ispettiva condotta dall’Inail – spiega ancora il sindacato guidato da Maurizio Landini – in un rapporto regolarizzato a part time spesso si nasconde un full time irregolare”. Non solo: le ore ‘fuori busta’, nella maggior parte dei casi, vengono retribuite in nero e spesso neanche per intero.
A lanciare l’allarme è anche la Cisl, che nel Report Lavoro di marzo rileva un’inversione di tendenza negativa nel quarto trimestre 2023 nonostante il record occupazionale del Paese. Se nel periodo precedente, infatti, la crescita delle assunzioni si era concentrata esclusivamente sul tempo pieno, nel quarto trimestre 2023 qualcosa è cambiato.
Una fotografia nitida viene scattata dal confronto con l’anno precedente: rispetto al quarto trimestre 2022, i contratti part time hanno segnato un +3,4%, mentre quelli a tempo pieno un +2%.
Le conseguenze demografiche
Il messaggio è chiaro e lineare: non basta guardare al record degli occupati, specie se l’obiettivo è rilanciare la natalità. Serve lavoro di qualità, con una retribuzione sufficiente per garantire la sussistenza propria e dei figli.
Ciò che emerge dai dati dei sindacati, invece, è l’aumento del lavoro povero che unito all’incertezza lavorativa crea un mix letale sui guadagni attuali e le prospettive future. Sempre più giovani sono spaventati da quello che può accadere nel prossimo futuro e, siccome crescere un figlio costa, preferiscono rimandare la scelta della genitorialità, a volte fino a cancellarla. La povertà salariale e l’incertezza lavorativa, inoltre, sono tra le cause che spingono sempre più donne a scegliere il social freezing in Italia.
Quando, invece, i salari sono sufficienti per mantenere la famiglia, spesso ad essere insufficiente è il tempo da dedicare ai figli.
Il lavoro povero
Secondo i dati pubblicati dalla CGIL, la Ral (Retribuzione annua lorda) per i lavoratori part-time in Italia si attesta sugli 11.000 euro, ancora più basse rispetto a una media nazionale già di per sé bassa, specialmente nel Mezzogiorno e per i contratti a tempo determinato, dove si arriva a retribuzioni annue sotto i 6.200 euro.
Se si considera che nel 2022 il salario medio dei lavoratori dipendenti del settore privato (dati Inps, esclusi agricoli e domestici) si è attestato a 22.839 euro lordi annui, emerge chiaramente il gap salariale sulle spalle dei lavoratori part-time.
“Se passiamo dal lordo al netto – commenta il segretario confederale della Cgil Christian Ferrari – risulta che, nel 2022, 5,7 milioni di lavoratrici e lavoratori hanno guadagnato l’equivalente mensile di 850 euro, altri 2 milioni di dipendenti arrivano ad appena 1.200 euro al mese. E la situazione non è certo migliorata nel 2023, anno in cui l’inflazione ha raggiunto il 5,9%, cumulandosi con quella dei due anni precedenti, raggiungendo un totale del 17,3%”
Part-time e gender gap
Un’altra faccia del lavoro povero è il gender gap.
Ancora oggi, mansioni domestiche e cura dei figli ricadono molto di più sulle donne, che sugli uomini e le conseguenze sono lampanti.
Secondo i dati del report lavoro elaborato dalla Cisl i lavoratori a tempo parziale sono arrivati a 4,3 milioni, ma se il part-time riguarda appena il 7% degli occupati uomini, la percentuale schizza al 31,1% tra le donne occupate. Insomma, il lavoro a tempo parziale (con tutte le sue conseguenze contributive e retributive) incide sulle donne oltre quattro volte in più rispetto agli uomini.
Con l’aggravante che anche le donne che scelgono volontariamente il part time lo fanno perché è spesso l’unico strumento di conciliazione, in un Paese che offre insufficienti servizi per la natalità e un numero molto limitato di scuole a tempo pieno. Certo, non mancano le imprese che implementano un welfare aziendale serio e strutturato, ma restano una rarità nel panorama italiano. Sarebbe, d’altra parte, inopportuno affidare al mondo produttivo il problema della denatalità che resta un’emergenza pubblica.
Il lavoro part-time non è il punto più basso del gender gap.
Il divario si allarga quando si parla di dimissioni come mostra la relazione annuale 2022 sulle dimissioni presentate entro i primi tre anni dalla nascita dei figli.
Che a licenziarsi siano soprattutto le donne neomamme lo conferma il 72,8% dei provvedimenti, pari a 44.669 dimissioni convalidate. La parte peggiore riguarda la causa: il 63% delle dimissioni rosa si basa sulla difficile conciliazione tra la cura dei figli e il lavoro, causa che tocca gli i papà solo nel 7,1% dei casi.
Altri dati del rapporto corroborano la tesi. La fascia d’età 29-44 anni occupa quasi l’80% dei destinatari delle convalide e quasi il 60% dei provvedimenti riguarda mamme e papà con un solo figlio o in attesa del primo. Le percentuali inferiori in presenza del secondo o terzo figlio dimostrano che all’aumentare del numero dei bambini peggiorano le condizioni di stabilità lavorative, ma che la sola prima maternità è sufficiente a mettere in crisi le donne che scelgono di diventare mamme.
Gli uomini provano a fare la loro parte in questo scenario divisivo, tanto che il tasso di congedo di paternità in Italia tra il 2013 e il 2022 e molti papà manager chiedono di rendere il congedo parentale obbligatorio anche per gli uomini i lavoratori uomini che diventano genitori (ad ora, sono obbligatori solo 10 giorni di astensione dal lavoro). Anche l’impegno degli uomini nelle mansioni domestiche seppure il gap sia ancora molto ampio.
Le difficoltà dei giovani
Quando si parla di natalità, si parla soprattutto di giovani, delle loro condizioni economiche, ma anche della libera scelta di diventare o meno genitori. Un punto sul quale, pochi giorni fa, l’onorevole Sportiello ha criticato la ministra per la Famiglia Eugenia Roccella.
Quando, però, la scelta di diventare genitori c’è, non è detto che si tramuti in realtà. Oltre ai contratti part-time, sui giovani pesa anche l’instabilità lavorativa, con anni di stage e contratti a tempo determinato prima dell’indeterminato. Se all’orario ridotto si aggiunge anche il contratto a tempo determinato, e quindi l’occupazione discontinua, il salario lordo medio annuo si riduce a 6.267 euro. Redditi con cui è impossibile campare sé stessi, figurarsi dei figli.
Andare a vivere da soli
Con salari così bassi e il costo del carrello lievitato rispetto a tre anni fa, andare a vivere da soli diventa difficile per gli italiani che già nel 2022 lasciavano casa a 30 anni, quasi tre anni e mezzo più tardi della media europea.
Allo stesso tempo, sempre più giovani lasciano le zone rurali o del Sud Italia per trasferirsi nelle grandi città, spesso al Nord per esigenze lavorative. In molti casi questo si traduce nella lontananza dai genitori e potenziali nonni dei nascituri, vero e proprio baluardo del welfare privato per gli italiani. Non solo: la migrazione interna genera un aumento di domanda sul mercato immobiliare che, a sua volta, genera l’aumento dei canoni di locazione. Ecco, quindi, che il quadro è completo:
- Salari bassi;
- Servizi per l’infanzia insufficienti;
- Genitori-nonni lontani;
- Canoni di affitto sempre più alti.
Una situazione che assomiglia a una tragedia greca dove la politica è l’unico deus ex machina possibile.
Tra le iniziative spicca quella promossa dal comune di Milano che, sotto la spinta dell’assessore alla Casa Pierfrancesco Maran, ha lanciato un bando per aiutare i giovani con l’affitto.
L’aiuto avrà una durata di tre anni e ammonta a un totale di 9.000 euro per nucleo famigliare, corrispondenti a 3.000 euro all’anno, 250 euro al mese. Il contributo sarà erogato direttamente ai proprietari degli alloggi che poi sconteranno la somma dal canone locatizio. Con circa 3,3 milioni di euro di finanziamento, potranno accedere alla misura circa 360 famiglie. Una misura che non risolverà da sola il problema, ma indica la via da seguire per rilanciare la natalità, almeno finché i salari italiani resteranno tra i più bassi dell’area Ocse.
Le prospettive (assenti)
Tutti questi fattori portano a un’unica domanda: con che prospettive si può mettere su famiglia? La risposta è un muro bianco, grigio nella migliore delle ipotesi, quando almeno un elemento tra tempo e denaro è abbastanza per mantenere un figlio.
Infine, bisogna considerare che i lavoratori poveri diventeranno pensionati poveri e, soprattutto, pensionate povere, mentre l’età per uscire dal lavoro si sposta sempre più in avanti: secondo una ricerca Ocse, un giovane che inizia a lavorare oggi andrà in pensione a 71 anni. Per questo, i sindacati chiedono l’introduzione di una pensione di garanzia, e anche il superamento, per i part-time, del minimale contributivo necessario al raggiungimento dell’anzianità previdenziale.
Nella speranza di invertire un trend che affossa le speranze dei giovani e la natalità del Paese.
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