Scuole sempre più vuote, Italia sempre meno competitiva: i dati del MIM
- 24/09/2024
- Popolazione
Un tempo si faceva a gara per vedere quale scuola aveva più studenti. “Da me si arriva alla sezione ‘E’”, “da me arriviamo alla ‘F’” e via così rincorrendo un finto successo, scandito dalle lettere e sancito dai numeri. Gli stessi numeri dimostrano come la crisi demografica sta svuotando le scuole italiane dagli studenti, sottraendo competenze e produttività alla nostra economia.
I dati MIM sulla scuola
I dati del MIM (Ministero dell’Istruzione e del Merito) sono allarmanti: nel nuovo anno scolastico appena iniziato, il 2024-2025, le scuole italiane avranno 110.000 studenti in meno, portando il totale a poco più di sette milioni. Chi conosce la crisi demografica non è sorpreso dal trend, ma dalla sua accelerazione: in dieci anni, dal 2013 al 2023, le scuole italiane hanno perso quasi 700.000 alunni, con una riduzione del 1,52% solo nell’ultimo anno.
Se il calo della popolazione adulta e anziana desta preoccupazione, la diminuzione degli studenti rivela un problema ancora più profondo: l’impoverimento del capitale umano, cioè di coloro che saranno in grado di sostenere la crescita economica e sociale del Paese. Se a questo si somma la crisi di competenze endemica del nostro sistema, il quadro è completo.
La desertificazione delle classi e l’asimmetria geografica
Fino a qualche anno fa c’era il problema del sovraffollamento. Ecco, ora c’è il problema opposto, ovvero lo svuotamento delle classi: le sezioni attive sono diminuite meno degli studenti (-0,75%), il che significa che le classi sono mediamente meno affollate. I dati del Ministero, però, certificano che situazione cambia molto lungo la penisola.
Come il calo demografico, anche il calo degli alunni è stato particolarmente drastico nel Mezzogiorno, soprattutto in alcune regioni. Il Molise ha registrato un calo degli studenti del 30,1%, la Basilicata del 17,81% e la Puglia del 16,38%.
Al contrario, in alcune regioni del Centro-Nord, come Emilia Romagna, Lombardia e Toscana, il calo è stato meno marcato e in alcuni casi si è persino registrato un aumento degli studenti. Ad esempio, in Emilia Romagna il numero di alunni è cresciuto dello 0,38% tra il 2013 e il 2023.
L’aumento degli studenti disabili e le nuove sfide
Un elemento che emerge dai dati del Ministero è l’aumento del numero di studenti disabili, che è cresciuto di oltre il 50% negli ultimi dieci anni, superando i 300.000. Questo dato è positivo in quanto riflette una maggiore consapevolezza e supporto per studenti con bisogni educativi speciali, ma rappresenta anche una sfida per il sistema scolastico, soprattutto nelle regioni dove il calo degli studenti è più marcato.
In alcune aree del Sud, come la Calabria e la Sardegna, dove la desertificazione scolastica è particolarmente grave, l’aumento degli studenti disabili crea una situazione difficile da gestire. Questi studenti necessitano di risorse e assistenza specifiche, ma in un contesto in cui le classi si svuotano e i fondi sono limitati, il sistema scolastico rischia di non essere all’altezza delle esigenze.
La crisi nelle scuole dell’infanzia e l’impatto sulle superiori
La ‘demografia della scuola’ risponde molto chiaramente a una domanda: quando vedremo gli effetti peggiori della denatalità italiana?
Infatti, le classi si stanno svuotando soprattutto nei cicli scolastici più bassi, con una riduzione del 21,4% nelle scuole dell’infanzia e del 14,55% alle elementari. Numeri impietosi, di cui vedremo gli effetti tra qualche anno, quando le classi vuote si tradurranno in una profonda carenza di capitale umano.
Alle scuole medie la diminuzione è stata meno drastica (-8,25%), mentre le scuole superiori hanno registrato un leggero aumento del 2,01% negli ultimi dieci anni.
Questo incremento, però, è dovuto principalmente all’aumento degli studenti stranieri, che rappresentano una fetta sempre più ampia del corpo studentesco. Gli alunni con cittadinanza non italiana sono cresciuti del 18%, da 132.000 studenti in più rispetto al 2013. Se da un lato gli alunni stranieri hanno contribuito a rallentare l’emorragia di iscritti, dall’altro emerge una forte disparità geografica. Regioni come la Lombardia hanno visto un incremento di 41.000 alunni stranieri, che rappresentano il 31% del totale, ma ciò non è sufficiente a compensare il calo complessivo della popolazione scolastica. Che è poi quello che succede sul fronte natalità.
Inoltre, gli studenti di nazionalità non italiana aumentano nelle regioni dove già sono più presenti, così come la migrazione interna va sempre nella stessa direzione: dal Sud e dalle periferie al Nord e alle grandi città, finendo per acuire le differenze territoriali del Paese.
La relazione tra scuole vuote e carenza di lavoratori
Il crollo della popolazione scolastica non riguarda solo la quantità, ma anche la qualità della formazione. Le scuole professionali, che dovrebbero preparare i giovani al mercato del lavoro, hanno subito un calo drammatico: negli ultimi dieci anni gli iscritti sono diminuiti del 18,43%, e il primo anno delle scuole professionali ha visto un crollo del 37,37%. Questo dato è particolarmente preoccupante in un momento in cui il mercato del lavoro italiano ha una forte domanda di professionalità specialistiche.
Secondo un rapporto di Area Studi Legacoop e Prometeia, il sistema produttivo italiano perde circa 150.000 lavoratori all’anno, e li perderà almeno fino al 2030.
In alcuni settori la crisi demografica è accentuata dal mismatch tra le competenze richieste dal mercato e quelle offerte dai giovani. La carenza di figure professionali in ambiti strategici, come ingegneria e scienze, si scontra con un eccesso di laureati in discipline per le quali il mercato offre poche opportunità. La mancanza di ingegneri e tecnici specializzati è particolarmente acuta nel settore dell’IT e delle energie rinnovabili, dove la domanda cresce rapidamente ma l’offerta non riesce a tenere il passo.
In parallelo, dalle università italiane escono molti giovani talenti laureati in aree con alta offerta e bassa domanda. Ad esempio, in scienze politiche e sociali, le università formano annualmente il doppio dei laureati rispetto alle posizioni disponibili nel settore pubblico e privato. Allo stesso modo, i laureati in lingue straniere e psicologia spesso trovano difficoltà a inserirsi nel mercato del lavoro, dove la domanda di tali competenze è insufficiente rispetto all’offerta.
Il problema non si limita alle professioni altamente qualificate. Anche le aziende che cercano personale meno qualificato, come operai e lavoratori manuali, segnalano gravi difficoltà.
Un rapporto dell’Associazione Nazionale dei Piccoli Imprenditori evidenzia che il 50% delle imprese lamenta difficoltà nel trovare manodopera poco qualificata, soprattutto in settori come l’agricoltura e il turismo, dove le condizioni di lavoro e i salari non sempre attraggono i lavoratori locali.
Possibili soluzioni
Anche l’immigrazione è una cartina di tornasole della relazione tra formazione e lavoro: nel 2023, le richieste di lavoro per i lavoratori non comunitari hanno superato di circa il 30% i limiti annuali previsti dal governo, mettendo in evidenza l’urgenza di politiche migratorie più flessibili e di misure per integrare meglio i lavoratori già presenti nel mercato. In pratica, gli immigrati hanno prima tenuto in piedi (seppur barcollante) la demografia italiana, ora devono generare ricchezza lavorando laddove gli italiani non vogliono più farlo. Questo quadro è particolarmente accentuato in Italia, ma non riguarda soltanto il Belpaese, tanto che l’Unione europea ha stilato un piano per attrarre i talenti extra comunitari.
La sfida non è solo quella di aumentare il numero di studenti, ma di garantire che i pochi che rimangono siano adeguatamente formati per affrontare il mondo del lavoro. Se la prima dipende dalla demografia (e dalla immigrazione), la seconda richiede degli sforzi congiunti per aumentare la qualità della formazione. Un’altra via per tamponare l’emergenza scolastica è ridurre l’abbandono scolastico che, sebbene in calo, rimane un problema: nel 2023, il 10,5% degli studenti ha lasciato la scuola senza diploma, un miglioramento rispetto al 16,8% di dieci anni fa, ma ancora lontano dall’obiettivo di zero dispersione scolastica.
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