Le pensioni italiane (già risibili) saranno erose dall’inflazione: quale futuro per i giovani?
- 29/05/2024
- Welfare
È allarmante l’indagine sui redditi da pensione presentata ieri dallo Spi Cgil, Federconsumatori, Inca e Caf Cgil Modena, riferita agli importi del 2022 su 44mila dichiarazioni al Caf. Uno scenario locale che offre diversi spunti nazionali.
Tra i diversi dati, uno colpisce e riassume la situazione pensionistica più di tutti gli altri: ogni 100 euro guadagnati lavorando, se ne prenderanno 64 di pensione. Forse, ancora più preoccupante è il trend in discesa.
Entrando nel dettaglio della ricerca, messa a punto da Massimiliano Vigarani, su Modena si registra una forte perdita del potere d’acquisto: in un solo anno, dal 2021 al 2022, l’arretramento medio raggiunge il 4,9%. Nel raffronto con le pensioni del 2016 l’importo si riduce di 1.200 euro. In pratica, è come se in otto anni si sia persa una mensilità di pensione.
L’incremento delle pensioni deciso dal governo per fronteggiare il caro vita “non è stato minimamente in grado di arginare la perdita di potere d’acquisto”, spiega sul quotidiano Roberto Righi, segretario Spi Cgil Modena. Discorso analogo e ancora più grave per gli stipendi italiani su cui non c’è stato nessun intervento migliorativo di rilievo.
Marzio Govoni, presidente di Federconsumatori Modena, sottolinea al Resto del Carlino che “il problema riguarda le pensioni dei lavoratori dipendenti perché invece per gli autonomi risultano assegni superiori al tasso di inflazione. Siamo di fronte a una palese ingiustizia sociale: il tema della rivalutazione delle pensioni deve tornare ad essere un impegno prioritario del Governo“.
Le differenze tra i pensionati
Se il record occupazionale registrato a livello nazionale corrisponde con il più alto tasso di lavoro povero registrato nella storia italiana, la situazione è ancora peggiore per donne e giovani, come abbiamo più volte analizzato su queste pagine.
Nell’analisi di Spi Cgil, Federconsumatori, Inca e Caf Cgil Modena tra pensionati e pensionate si è registrata una forbice di 4.800 euro, principalmente a causa del maggiore impiego delle donne nei settori poveri, a elevata irregolarità e con contratti per lo più part time, spesso involontari.
Rigirando la questione sul nazionale, si trovano conferme. In Italia quasi un lavoratore su cinque ha un contatto part-time e, in oltre un caso su due, non per scelta. La Cgil denuncia che nella penisola l’incidenza del part time involontario è pari al 57,9%, la più alta di tutta l’Eurozona.
Chiaramente, l’orario parziale ha risvolti positivi quando è il frutto di una scelta della lavoratrice o del lavoratore; negativi quando rappresenta un’imposizione. Uno scenario che, come si è visto, riguarda più di un lavoratore part time su due tanto che il sindacato guidato da Maurizio Landini ha lanciato la campagna “La precarietà ha troppe facce. Combattiamola insieme” per “smascherare” tutte le situazioni in cui il contratto a tempo parziale viene imposto dal datore di lavoro al dipendente.
Ancora più gravi e senz’altro oltre la linea della liceità i contratti part time che nascondono un contratto full time, con le annesse conseguenze sugli assegni pensionistici.
Nel Report Lavoro di marzo, la Cisl rileva un’inversione di tendenza negativa nel quarto trimestre 2023 nonostante il record occupazionale del Paese. Mentre nel periodo precedente la crescita delle assunzioni si era concentrata esclusivamente sul tempo pieno, nel quarto trimestre 2023 i contratti part time hanno segnato un +3,4%, mentre quelli a tempo pieno un +2% rispetto al quarto trimestre 2022.
La pensione per i giovani: miraggio o realtà?
Con sempre meno nascite, il sistema pensionistico italiano rischia il collasso e a pagarne le conseguenze saranno, chiaramente, i giovani. Dopo uno studio condotto insieme ad Eurese, il Consiglio Nazionale dei Giovani spiega che gli under 35 italiani rischiano di andare in pensione a 74 anni e con un assegno medio di poco superiore a 1000 euro. La situazione da complicata diventa drammatica, se si pensa che nel frattempo l’inflazione continuerà a fare il suo corso, come è normale in un’economia sana. Ciò che, invece, non è sano è il mancato adeguamento degli stipendi all’inflazione, da cui deriverebbero automatici vantaggi pensionistici.
La ricerca, condotta da Eures su dati Inps relativi al monte retributivo dei giovani (15-35 anni), spiega come i ragazzi che hanno cominciato a lavorare nel 2020 a 22 anni in Italia raggiungeranno l’età pensionabile a 71 anni, il dato più alto tra i principali Paesi europei, ma con un assegno talmente basso da dover continuare a lavorare fino a raggiungere il minimo previsto dalla legge, ovvero 2,8 volte l’assegno sociale.
Gli under 35 italiani dovrebbero ritirarsi dal lavoro quasi a 74 anni (73,6), con un assegno di 1.561 euro lordi mensili (1.093 al netto dell’Irpef, 1.134 euro per gli uomini e 1.041 per le donne), ovvero 3,1 volte l’importo dell’assegno sociale. Per i lavoratori in Partita Iva (sempre con ritiro a 73,6 anni) l’importo dell’assegno pensionistico ammonterebbe a 1.650 euro lordi mensili (1.128 al netto dell’Irpef), ovvero 3,3 volte l’importo dell’assegno sociale.
La pensione integrativa come salvagente
Considerando le uscite anticipate e le varie eccezioni alla regola generale, l’età media di pensionamento, in Italia, è di circa 65 anni contro la media Ocse di 64.1. Ma sono le prospettive future a rendere necessario il ricorso alla pensione integrativa: Secondo il Rapporto ‘Pensions at a glance’ dell’Ocse, “Per chi entra ora nel mercato del lavoro l’età pensionabile normale raggiungerebbe i 70 anni nel Paesi Bassi e Svezia, 71 anni in Estonia e Italia e anche 74 anni in Danimarca”.
Eppure, le pensioni integrative stentano a decollare nel Belpaese.
La ragione di questo ritardo è anche culturale, ma si intreccia a doppio filo al tema del lavoro povero: se gli stipendi sono troppo bassi per risparmiare qualcosa e in molti casi anche per arrivare a fine mese, come si può investire in una pensione complementare? A volte la domanda è così remota da non trovare spazio, mentre quella che chiede “Come si fa a mantenere un figlio?” diventa persino più ingombrante.
Nei prossimi dieci anni l’Italia perderà l’11% delle famiglie con figli a carico, sia per una dinamica demografica strutturale (mancano i giovani), ma soprattutto per il crollo del potere d’acquisto.
Nessuna sorpresa, dunque, se, come dimostra ampiamente la 39° edizione de Linkontro, in Italia tra le attuali sei milioni di famiglie con figli, tre su quattro hanno un reddito sotto la media nazionale. Insomma, famiglie che dovrebbero avere un reddito maggiore per affrontare le spese legate al mantenimento dei figli, nel 75% dei casi si trovano invece in una situazione reddituale peggiore della media nazionale, spesso a causa di una restrizione nel monte ore lavorativo, se non di fronte a delle dimissioni come succede in Italia per una donna su cinque dopo il parto.
Lungi dall’essere bamboccioni o scansafatiche, i giovani italiani risultano, invece, perfettamente consapevoli dello scenario in cui vivono. Per questo, emerge ancora dall’incontro, le nuove generazioni sono più tristi degli anziani e lo stesso vale per le famiglie con figli a carico rispetto a quelle senza.
Non è più tempo di chiederci se è questo il futuro che vogliamo per i nostri figli, serve intervenire nel presente. Prima che sia troppo tardi.
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