Come cambieranno le pensioni, Durigon: “Faremo quota 41”
- 16/01/2024
- Welfare
Nel 2024 potrebbe arrivare la tanto attesa riforma delle pensioni. Di sicuro, il governo Meloni cercherà di ribadire il principio che ha caratterizzato la Legge di Bilancio 2024: scegliere la pensione anticipata sarà penalizzante per chiunque. Lo conferma il sottosegretario all’Economia Claudio Durigon in un’intervista a La Repubblica, anche se lascia spazio a delle eccezioni: “Faremo una riforma delle pensioni per un decennio, incentivando a restare al lavoro nei settori in cui c’è bisogno. E favorendo l’uscita con 41 anni di contributi negli altri”.
Certo, l’altro lato della medaglia vede una popolazione lavorativa sempre più anziana con, verosimilmente, un calo della produttività, ma il mercato e la crisi demografica non offrono alternative.
Quest’anno la spesa pensionistica è stimata al 16% del Pil a quota 340 miliardi di euro. In base alle leggi attuali, nel prossimo biennio l’incidenza sul prodotto interno lordo dovrebbe restare invariata ma in valore assoluto toccherà i 350 miliardi nel 2025 e i 360 miliardi l’anno successivo.
Con questo scenario, anticipare i pensionamenti senza incidere sugli importi significherebbe aumentare la spesa pubblica rischiando di essere (ancora) più attenzionati dall’Unione europea, che ha già aperto una procedura di infrazione contro l’Italia per l’Assegno Unico Universale.
L’obiettivo, spiega Durigon, è varare una riforma “sostenibile per i conti e per il mercato del lavoro, flessibile e duratura”.
Età pensionabile e carenza di lavoratori
La Manovra 2024 ha confermato i 67 anni come età anagrafica per andare in pensione anche per il biennio 2024-2025. “Il tema dell’aspettativa di vita va valutato con attenzione”, sottolinea Durigon spiegando che nei settori dove c’è carenza di personale (sanità su tutti) è indispensabile incentivare le persone a non lasciare il lavoro prima dell’età pensionabile.
Nonostante le battaglie elettorali, abolire la riforma Fornero appare sempre più difficile: “Rimane il nostro obiettivo politico – spiega l’esponente leghista – ma per cancellarla servirebbero enormi risorse”. Tuttavia, ricorda il sottosegretario, “con il peso via via minore delle pensioni retributive, anche quella legge morirà”.
L’obiettivo dichiarato della Lega è quello di introdurre la famosa Quota 41 che permetterebbe di lasciare il lavoro con 41 anni di contributi e a prescindere dall’età anagrafica. Una misura difficile da sostenere con questa denatalità, che mette a rischio qualsiasi riforma delle pensioni come ricordato dal Ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti.
Lo stesso Durigon, appena insediatosi il governo Meloni, aveva stimato il costo di Quota 41 in 4 miliardi di euro per il primo anno e in quasi 10 miliardi di euro nel 2029.
Per l’esponente leghista, tuttavia, c’è ancora modo di intervenire in questa direzione: “Faremo Quota 41, il cavallo di battaglia della Lega”, ha dichiarato a La Repubblica riconoscendo che la flessibilità previdenziale sotto i 41 anni di contributi è un’opzione impraticabile.
Allo stato attuale, i 41 anni di contributi restano ma uniti ai 62 anni di età per andare in pensione anticipata con la nuova Quota 103, più penalizzante rispetto a un anno fa. Il che già non era scontato, considerato il concreto rischio di introdurre Quota 104 (41 anni di contributi + 63 di età).
La nuova Quota 103
La conferma di Quota 103 ha richiesto dei sacrifici. A pagare dazio sarà soprattutto chi vorrà accedere alla pensione anticipata, che, stando alla ‘Nuova Quota 103’:
- Riceverà un assegno calcolato secondo il sistema contributivo (e non più misto che è più conveniente);
- dovrà sopportare tempi più lunghi per le finestre di uscita, ovvero il periodo di attesa per l’erogazione del primo rateo pensionistico: 7 mesi per i lavoratori privati e 9 per i dipendenti pubblici;
- non potrà in nessun caso ricevere un assegno mensile maggiore di 4 volte il trattamento minimo (che nel 2024 sarà di circa 2.272 euro lordi mensili).
Giova ricordare che, seppure con modalità diversa, tutti gli strumenti di uscita anticipata dal lavoro hanno subito delle restrizioni o di calcolo (Quota 103) o di età anagrafica (Ape sociale e Opzione donna), tanto che nel 2024 diminuiranno gli italiani che sceglieranno la pensione anticipata.
La causa di questa situazione risiede proprio nella crisi demografica: l’assenza di nuovi lavoratori rende sempre meno sostenibile il sistema pensionistico e “obbliga” a disincentivare l’uscita anticipata dal lavoro.
Nello specifico, oltre alle modifiche previste per Quota 103:
- La nuova Opzione donna aumenta di 1 anno i requisiti di uscita anticipata (a 61 anni e non più 60 senza figli; a 60 anni e non più 59 con un figlio; a 59 anni e non più 58 con due o più figli);
- La nuova Ape sociale aumenta di 5 mesi l’età necessaria per l’uscita anticipata, che passa da 63 anni a 63 anni e 5 mesi.
Riflessioni conclusive
L’evoluzione del sistema pensionistico da sempre oggetto di acceso dibattito, ma è meno lineare di quanto sembri. Se, infatti, è la crisi demografica a richiedere l’allungamento dell’età pensionabile, quest’ultimo, a sua volta, disincentiva la natalità. Questo, almeno, emerge dallo studio condotto da Edoardo Frattola di Bankitalia ‘Parental Retirement and Fertility Decisions across Family Policy Regimes’.
In sostanza, nei Paesi mediterranei si ricorre molto più frequentemente a forme informali di cura dell’infanzia. E dunque l’aumento dell’età della pensione può avere conseguenze inattese negative sui tassi di fertilità di questi Paesi, perché ritardano le decisioni di fertilità delle coppie. Il sapere di non avere disponibili dei nonni, sempre più strumento di welfare privato per gli italiani, fa rimandare la scelta di avere un figlio a quando i genitori potranno fornire un aiuto.
Non proprio una strada auspicabile per un paese dove la fecondità media è scesa a 1,24 figli per donna dove, fino allo scorso anno, l’età media al parto ha raggiunto quota 32,4 anni, due anni in più rispetto al 1995.
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