Fino a 10 anni di carcere per chi spia i messaggi WhatsApp: la svolta della Cassazione
- 10 Giugno 2025
- Popolazione
Spiare i messaggi WhatsApp altrui può costare fino a dieci anni di carcere. Lo ha stabilito la corte di Cassazione con una sentenza emanata il 5 giugno scorso dopo la denuncia di una donna nei confronti del suo ex marito.
Il caso che ha fatto giurisprudenza
Il caso in questione nasce da una separazione coniugale degenerata in ossessione. Un uomo di Messina, nel tentativo di raccogliere prove contro l’ex moglie per ottenere l’addebito della separazione, aveva violato la sua riservatezza scaricando alcuni screenshot di WhatsApp e i registri delle chiamate. La donna, dal canto suo, lo aveva denunciato nel marzo 2022 per comportamenti molesti e controllo sistematico dei suoi dispositivi, accusandolo di aver inviato i messaggi privati persino ai suoi genitori per insinuare una presunta relazione extraconiugale.
L’uomo aveva fatto accesso a due cellulari della donna, quello personale e quello aziendale, entrambi protetti da password. Gli screenshot erano stati consegnati al proprio avvocato per essere utilizzati come prove nel procedimento civile, ma questa strategia si è rivelata un boomerang legale.
WhatsApp equiparato a un sistema informatico
La Suprema Corte ha chiarito che “violare lo spazio comunicativo privato di una persona, abbinato a un telefono cellulare nella sua esclusiva disponibilità e protetto da password, integra il reato di accesso abusivo a sistema informatico”. WhatsApp viene quindi qualificato come “sistema informatico” a tutti gli effetti, essendo un’applicazione software che elabora e trasmette dati attraverso reti digitali.
Questa equiparazione rappresenta un salto concettuale fondamentale: le chat digitali godono della stessa tutela riservata alla corrispondenza tradizionale.
L’irrilevanza del consenso pregresso
Da un punto di vista dei rapporti di fiducia tra due persone, la sentenza ha messo in evidenza un altro aspetto cruciale, ovvero l’irrilevanza della conoscenza delle credenziali di accesso. Anche quando si conosce il codice di sblocco del telefono, magari comunicato in precedenza dal proprietario, questo non legittima accessi successivi contrari alla volontà del titolare.
Inoltre, l’autorizzazione ha validità limitata nel tempo e nello scopo, superare questi limiti configura automaticamente l’abusività dell’accesso.
Per estensione, questo principio significa che se qualcuno vi consegna temporaneamente il telefono per mostrarvi una foto, ma voi ne approfittate per curiosare nelle chat, state commettendo un reato. Non contano le finalità soggettive che hanno motivato l’intrusione, nemmeno se motivate da presunte motivazioni probatorie come nel caso dei due ex coniugi.
Le sanzioni previste
Il reato di accesso abusivo a sistema informatico prevede la reclusione fino a tre anni per la fattispecie base, che può arrivare fino a dieci anni nelle circostanze aggravate che, per il reato di accesso abusivo a sistema informatico, sono definite dall’articolo 615-ter del Codice penale. Le principali aggravanti sono:
- Abuso di qualità o funzione: il reato è aggravato se commesso da un pubblico ufficiale, da un incaricato di pubblico servizio (con abuso dei poteri o violazione dei doveri), da chi esercita abusivamente la professione di investigatore privato, o da chi abusa della qualità di operatore del sistema;
- Uso di minaccia o violenza: l’accesso abusivo è aggravato se compiuto con minaccia o violenza sulle persone o sulle cose, oppure se l’autore è palesemente armato;
- Conseguenze dannose: la pena è aggravata se dall’accesso derivano distruzione, danneggiamento, sottrazione, riproduzione o trasmissione non autorizzata di dati, oppure se si rende impossibile l’accesso al titolare o si causa l’interruzione totale o parziale del funzionamento del sistema;
- Sistemi di interesse pubblico: l’aggravante più rilevante è prevista quando l’accesso riguarda sistemi informatici di interesse militare, di ordine pubblico, di sicurezza pubblica, di sanità, di protezione civile o comunque di interesse pubblico. In questi casi, la pena può arrivare da tre a dieci anni (o da quattro a dodici anni in casi particolarmente gravi).
Nel caso specifico delle chat WhatsApp su un telefono privato, le circostanze aggravate si applicano solo se ricorrono una o più delle condizioni sopra elencate (ad esempio, uso di minacce, violenza, o abuso di una funzione pubblica).
Parallelamente, la condotta può configurare anche la violazione di corrispondenza, punita con reclusione fino a un anno o multa da trenta a cinquecentosedici euro, con pene aggravate fino a tre anni in caso di rivelazione del contenuto.
Le sanzioni per chi condivide conversazioni private
I rischi non finiscono qui. Chi condivide messaggi altrui sui social o li gira a terzi per “svergognare” qualcuno rischia anche il reato di trattamento illecito di dati personali o diffamazione, che si configura quando si condividono messaggi con almeno due persone all’insaputa del soggetto interessato. Quando questa condivisione non consensuale ha ad oggetto contenuto intimo, si entra nel più grave fenomeno del revenge porn.
L’impatto sui procedimenti di separazione
La sentenza ha particolare rilevanza per le cause matrimoniali. Come sottolinea l’avvocato Gian Ettore Gassani, presidente dell’Associazione Avvocati Matrimonialisti Italiani: “Non sarà più possibile depositare in giudizio le chat segrete del coniuge, acquisite illegalmente. Chi vorrà indagare sulla condotta dell’altro coniuge dovrà farlo nei limiti della legalità, tramite investigazioni private autorizzate”.
Le prove devono sempre essere acquisite in modo lecito. L’adulterio, peraltro, non è più un motivo frequente di addebito di colpa: è più importante dimostrare che è venuta meno la comunicazione o la fiducia piuttosto che portare in tribunale messaggi ottenuti illegalmente.
Una società sotto sorveglianza digitale
La decisione della Cassazione si inserisce in un contesto sociale dove il controllo reciproco attraverso i dispositivi tecnologici è diventato pratica diffusa. Secondo Eurostat, un terzo degli italiani installa app sugli smartphone senza prevedere alcuna forma di protezione dei propri dati. Eppure, gli smartphone rappresentano ormai i veri archivi della nostra vita privata. Oltre ai messaggi, alle foto e ai video più intimi, lo smartphone può rappresentare la porta di accesso per una miriade di credenziali; per questo è fortemente consigliato usare l’autenticazione a due fattori per tutti quei software collegati a conti bancari e altri metodi di pagamento.
La sentenza della Cassazione stabilisce che anche all’interno delle relazioni più intime, il rispetto della privacy digitale costituisce un diritto inviolabile e rappresenta un importante precedente per la giurisprudenza futura in materia di privacy digitale. L’evoluzione tecnologica impone al diritto penale di adeguare le proprie tutele alle nuove forme di violazione della riservatezza, riconoscendo piena dignità giuridica agli spazi comunicativi digitali.