Mondiale di calcio femminile 2023, essere mamma e calciatrice in Italia è ancora un’impresa
Sono cominciati i Mondiali di calcio femminili 2023, la Nazionale italiana esordisce contro l’Argentina. L’interesse verso le sportive sta aumentando, eppure essere mamma e calciatrice in Italia è ancora molto difficile: un dato di fatto che conferma la generale difficoltà per le donne di conciliare vita, quindi anche – e soprattutto – famiglia, e lavoro.
Senza contare che si fa presto a dire ‘lavoro’. In Italia le atlete sono quasi sempre inquadrate come dilettanti (un problema che a onor del vero riguarda in grossa parte anche gli uomini), una situazione che lede i loro diritti e ostacola lo sviluppo dello sport nel Paese.
Calciatrici professioniste solo dalla stagione 2022/2023
Qualcosa per fortuna si sta muovendo, anche se lentamente. Dopo i mondiali del 2019 infatti, e un certo hype che ne seguì (le italiane arrivarono fino ai quarti, fermate solo dall’Australia), il processo verso il professionismo ha accelerato. Fino ad arrivare nel 2020 alla delibera del Consiglio Federale della Figc che ha istituito il primo campionato professionistico femminile di Serie A, quello del 2022/2023.
Si tratta sicuramente di un salto in avanti: professionismo significa diritti in tema di maternità, assistenza e previdenza, dà dignità a quella che altrimenti rimarrebbe una passione, crea la possibilità per le ragazze di farne un vero e proprio lavoro (come gli uomini), e consente di allargare la base delle divisioni giovanili femminili.
Basti pensare che ai Mondiali del 2019 l’Italia era l’unica squadra tra le prime otto al mondo a non essere composta da professioniste.
Le tutele per la maternità
Dal 2021 FifPro (il sindacato dei calciatori professionisti) e Fifa hanno introdotto norme che prevedono un congedo di maternità garantito minimo di 14 settimane, di cui almeno 8 dopo il parto, e un indennizzo pari ad almeno due terzi dei compensi previsti in precedenza. L’altro genitore può godere a sua volta di un congedo parentale minimo di 14 giorni dopo il parto, salvo disposizioni nazionali che prevedano un periodo più lungo.
Le calciatrici inoltre hanno acquisito il diritto di rimanere tesserate con la propria società durante la maternità. Se durante questo periodo le società vogliono rescindere il contratto, devono motivare la decisione in modo dettagliato e valido, oltre a risarcire l’atleta con sei mensilità.
Al loro ritorno in campo, i club devono reintegrare le giocatrici e fornire supporto medico e fisico adeguato, e in generale le atlete non devono subire alcuna discriminazione a causa della gravidanza.
Si tratta sicuramente di passi in avanti verso il superamento della scelta se essere calciatrice o mamma. Scelta che ancora è molto presente: il rapporto sull’occupazione 2017 realizzato da FifPro rivela che solo il 2% delle giocatrici aveva figli e che il 47% affermava che avrebbe lasciato l’attività sportiva proprio a causa della mancanza di tutele.
In Serie A, attualmente, solo l’islandese Sara Gunnarsdóttir della Juventus Women ha figli.
Discriminazioni ancora presenti
Il passaggio al professionismo è un segnale positivo, ma rimangono delle lacune: intanto la delibera del Consiglio Federale riguarda solo la Serie A, cosa che crea disparità con gli altri campionati.
Un dettaglio non da poco se si pensa ad esempio al caso di Alice Pignanoli, in forza alla Lucchese, che lo scorso inverno ha denunciato su Instagram la decisione del suo club di non pagarla più perché incinta. L’atleta si è trovata priva di tutele, visto che il club milita in Serie B e quindi non è interessato dalle norme sul passaggio al professionismo.
Altro problema, è il tetto allo stipendio delle calciatrici, pari a 30.658 euro lordi a stagione a cui si possono sommare indennità di trasferta, rimborsi forfettari e premi per un massimo di 61,97 euro al giorno per 5 giorni alla settimana. Siamo ben lontani dunque dai compensi degli atleti maschi, anche se occorre considerare il ruolo in tal senso degli sponsor e dei diritti tv, e quindi del pubblico: tutti aspetti che il calcio femminile sta ancora costruendo.
Ma per avere dei confronti, la ricerca ‘Lavorare nel mondo del calcio: ecco quanto si guadagna’ dell’Osservatorio Betway sottolinea che le giocatrici della Serie A hanno uno stipendio medio di 1250 euro al mese, 34 volte meno dei colleghi uomini. E che un calciatore di serie C prende mediamente 2500 euro al mese e un magazziniere 1670.
Ci sono poi problemi di tipo pratico: non tutte le società sportive accettano di buon grado l’assenza della giocatrice per maternità. Episodi di cronaca anche recenti ricordano che le norme vanno accompagnate da una differente cultura e un diverso modo di pensare, specialmente in un Paese come l’Italia, in pieno inverno demografico, dove mettere le donne in condizione di dover scegliere se avere dei figli o lavorare è controproducente.
Essere atleta e mamma è possibile, lo dimostrano esempi come gli Usa e l’Australia, che da tempo considerano lo sport una professione e non a caso dispongono di contratti molto avanzati in tema di maternità.
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