Congedo mestruale, ok in Portogallo: quanto costerebbe all’Italia?
- 17 Luglio 2025
- Welfare
Il dolore mestruale è stato a lungo un argomento trascurato e minimizzato, vissuto in solitudine da milioni di donne e spesso ignorato nel dibattito pubblico e legislativo. Tuttavia, una crescente consapevolezza sta emergendo, ponendo il congedo mestruale al centro di un discorso sempre più urgente sui diritti e la salute femminile.
A riaprire il dibattito a livello europeo è stato il Portogallo, configurandosi come un modello all’avanguardia.
La svolta portoghese
In un significativo balzo in avanti, il Portogallo ha recentemente istituito per legge il congedo mestruale. Questa legislazione garantisce alle donne affette da endometriosi e adenomiosi la possibilità di assentarsi dal lavoro o dalla scuola fino a tre giorni al mese, senza subire alcuna penalizzazione economica o accademica. Un aspetto fondamentale di questa norma è la sua semplificazione burocratica: non è richiesto un certificato medico per ogni singola assenza, ma è sufficiente una diagnosi clinica ufficialmente riconosciuta della patologia.
Ma la visione portoghese va oltre la semplice assenza retribuita. La legge prevede un approccio sistemico alla salute femminile, assicurando un accesso facilitato a diagnosi, cure specialistiche e percorsi terapeutici tramite il sistema sanitario nazionale. Saranno implementate linee guida cliniche entro novanta giorni, e sono previsti rimborsi per i farmaci prescritti, oltre all’opzione di crioconservazione degli ovociti per chi ne ha necessità.
L’esperienza spagnola
Questo quadro normativo, nella sua applicabilità, si differenzia dall’esperienza spagnola, che nel 2023 aveva fatto da apripista introducendo anch’essa un congedo mestruale retribuito per dolori invalidanti. Tuttavia, a differenza del modello portoghese, il permesso spagnolo richiede sempre un certificato medico per ogni assenza ed è specificamente destinato a patologie come l’endometriosi. A un anno dalla sua entrata in vigore, sono state registrate poche richieste, a causa della limitata applicabilità della norma e della persistente paura di discriminazioni.
Il congedo mestruale in Italia: quanto costerebbe?
Nel nostro Paese, il dibattito sul congedo mestruale rimane ancora irrisolto. Nonostante diverse proposte di legge siano state presentate negli ultimi anni, nessuna ha finora superato l’iter parlamentare, lasciando l’Italia priva di una normativa nazionale a riguardo.
Eppure, si stima che un terzo delle donne italiane soffra di dolori mestruali ricorrenti e di intensità tale da compromettere la propria quotidianità. Una ricerca di WeWorld-Ipsos sulla povertà mestruale in Italia ha rilevato che il 32% del campione intervistato prova dolore durante ogni ciclo e, in media, le persone intervistate perdono 5,6 giorni di lavoro all’anno proprio a causa delle mestruazioni.
Un’obiezione ricorrente all’introduzione del congedo mestruale riguarda i potenziali costi di una simile misura. Tuttavia, Azzurra Rinaldi, direttrice della School of Gender Economics di Unitelma Sapienza e Co-founder e Cfo di Equonomics, ha elaborato delle stime dettagliate sui costi che l’istituzione di un congedo mestruale in Italia comporterebbe, dimostrandone la piena sostenibilità.
Le stime si basano su alcune assunzioni chiave:
• Popolazione di riferimento: Donne occupate in età compresa tra i 15 e i 54 anni, circa 7,5 milioni in Italia (un volume simile a quello della Spagna). Sono escluse le persone AFAB (Assigned Female At Birth), come uomini transgender e persone non binarie assegnate femmina alla nascita, a causa della mancanza di dati specifici, sebbene molte di queste persone possano avere le mestruazioni.
• Retribuzione media annua delle donne in età fertile: €15.585,25.
• Retribuzione media giornaliera: €74 (basata su 211 giornate lavorate all’anno).
• Giorni di permesso: Viene ipotizzata una media di 3 giorni di permesso al mese per donna, prendendo come riferimento il caso spagnolo.
Sulla base di questi dati, le stime dei costi sono le seguenti:
• Costo pro-capite annuo: Considerando 3 giorni di permesso al mese per donna, il costo pro-capite stimato sarebbe di €2.664 all’anno.
• Costo di base per lo Stato (copertura al 100%): Se lo Stato si facesse carico del 100% della copertura, il costo ammonterebbe a meno di 1 miliardo di euro all’anno, precisamente €994,5 milioni.
• Costo per lo Stato (copertura al 60%): Se la copertura fosse del 60%, come previsto nel caso del congedo mestruale spagnolo, la spesa a carico delle finanze pubbliche ammonterebbe a €596,7 milioni.
• Costo per lo Stato (copertura della sola componente contributiva): Se lo Stato coprisse solo la componente contributiva (pari al 23% per redditi medi bassi), la spesa ammonterebbe a soli €228,7 milioni.
• Costo complessivo se esteso a tutte le donne lavoratrici in età fertile (non solo quelle con dismenorrea): In questo scenario, il costo totale sarebbe di €3,1 miliardi.
Aggiungendo un dato basato sull’esperienza spagnola, il governo spagnolo ha ricevuto circa 1.500 domande per il congedo mestruale dall’introduzione della misura. Proiettando questo dato sul contesto italiano, la spesa annuale per il bilancio dello Stato ammonterebbe a poco più di €1,1 milioni. Anche considerando l’ipotesi di costo più elevata (€3,1 miliardi per tutte le lavoratrici in età fertile), la spesa rappresenterebbe soltanto lo 0,25% del totale stanziato nella manovra finanziaria precedente (che superava i 1.200 miliardi di euro nel 2024). Questo rende il congedo mestruale “totalmente sostenibile” per il bilancio pubblico italiano.

Il parere dell’economista Azzurra Rinaldi
A spiegarci l’importanza di questa spesa è la stessa economista femminista Azzurra Rinaldi: “Il mercato del lavoro non è stato progettato pensando ai corpi femminili. Per troppo tempo, esperienze comuni e naturali come il ciclo mestruale sono state ignorate: assenti nelle normative, nei contratti, nei luoghi di lavoro. Invisibili. Oggi, leggi come quella portoghese (e prima ancora quella spagnola) iniziano finalmente a colmare questo vuoto”.
“Il congedo mestruale rappresenta un primo, concreto passo verso il riconoscimento di un’esperienza reale, troppo a lungo taciuta o minimizzata. Significa restituire dignità a un bisogno fisico e umano – chiarisce Azzurra Rinaldi -. E non si tratta soltanto di giustizia sociale (anche se già questo basterebbe). Si tratta anche di efficienza, nel senso più tradizionale del termine”.
Le evidenze lo confermano: lavorare mentre si sta male riduce la produttività per giorni: “È come pretendere che qualcuno con 40 di febbre svolga le proprie mansioni come se nulla fosse. Il dolore ignorato ha un costo. Non solo personale, ma anche collettivo. Sia umano che economico”, ha concluso Rinaldi.
Riconoscere il problema, in sintesi, non è solo un atto di tutela individuale, ma un imperativo per la costruzione di una società più equa e inclusiva.