Il 57% dei tweet italiani sono messaggi d’odio. Sei le categorie più bersagliate, a partire dalle donne
- 17/03/2025
- Popolazione
Donne, ebrei, stranieri, musulmani, persone con disabilità, omosessuali e transessuali. Sono queste le sei categorie più odiate dagli utenti italiani di X durante il 2024. Lo evidenzia l’ottava edizione della Mappa dell’Intolleranza, un progetto ideato da Vox (Osservatorio Italiano sui Diritti) che, in collaborazione con le Università di Milano, Bari e Roma, ha analizzato i tweet pubblicati dagli utenti italiani. I promotori ringraziano anche The Fool, “senza la cui collaborazione nell’estrazione dei dati, la Mappa dell’Intolleranza, viste le policy restrittive volute da X, non avrebbe visto la luce”.
I numeri sono eclatanti: tra gennaio e novembre dello scorso anno, i messaggi discriminatori e di odio sono stati più di un milione, oltre la metà del totale (57%).
Donne le più odiate, crescono altre categorie vittime di hate speech
Come nelle edizioni precedenti, le donne risultano di gran lunga il principale bersaglio dell’odio online, rappresentando il 50% delle vittime di hate speech. Un dato inquietante è che un messaggio misogino su cinque (il 20,81% del totale) proviene dalle donne stesse. Un fenomeno di “auto-oggettivazione” che merita approfondimenti e rafforza l’odio di genere.
Dopo lo sterminio della popolazione palestinese nella Striscia di Gaza, l’antisemitismo ha registrato un’impennata drammatica. I messaggi d’odio contro gli ebrei erano il 6,59% due anni fa, e sono saliti al 27% del totale nel 2024. Contemporaneamente sono aumentate anche l’islamofobia (l’odio verso i musulmani) e la xenofobia (l’odio per lo straniero), sintomi di una società attraversata da forti pulsioni di rigetto verso lo “straniero”, percepito come una minaccia a causa della sua diversità culturale. Un meccanismo che genera anche l’abilismo, ovvero messaggi di odio contro le persone con disabilità.
Nello specifico:
- Tweet misogeni: 50%;
- Tweet antisemiti: 27%;
- Tweet xenofobi: 11%;
- Tweet islamofobi: 5%;
- Tweet contro le persone con disabilità: 4%;
- Tweet omotransofobici: 3%
Dal fenomeno diffuso alla verticalizzazione dell’odio
I ricercatori hanno sottolineato una trasformazione significativa nell’odio sul web: “Da qualche anno stiamo assistendo a una verticalizzazione del fenomeno di odio online, per il quale la diffusività iniziale ha lasciato il posto a un modello di dinamiche sociali sempre più incisive e polarizzate”.
In pratica, fino a qualche anno fa i messaggi d’odio si diffondevano in modo relativamente uniforme attraverso il web, toccando vari argomenti e gruppi sociali con un’intensità distribuita. Era un fenomeno ampio ma spesso superficiale, come un’onda che si allargava progressivamente ma perdeva forza. Invece, oggi, sottolineano i ricercatori, assistiamo a una “verticalizzazione” del fenomeno. Questo significa che l’odio online non si espande più orizzontalmente, ma si concentra in profondità su bersagli specifici. I messaggi d’intolleranza sono diventati più mirati, più intensi e soprattutto più polarizzati.
In un contesto segnato da guerre, elezioni americane e ascesa di movimenti populisti, i social network funzionano come cinghia di trasmissione tra media tradizionali, politica e sacche di malcontento sociale.
La mappa geografica dell’intolleranza
Le grandi città italiane si confermano epicentri dell’odio digitale: Milano risulta la città più misogina e xenofoba, mentre a Roma sono più diffusi messaggi d’odio di matrice antisemita e omotransfobica.
Questo dato è parzialmente influenzato dalla maggiore diffusione della piattaforma X nei grandi centri urbani.
Il ruolo degli stereotipi nella diffusione dell’odio
Per la prima volta, i ricercatori hanno utilizzato i Large Language Models (Llm) per analizzare l’incidenza degli stereotipi negativi sulla formazione e diffusione dell’hate speech. L’utilizzo dell’Ai ha rivelato come background culturali molto strutturati favoriscano la propagazione di messaggi d’odio. Gli Llm sono stati impiegati specificamente per studiare come gli stereotipi negativi influenzino la nascita e la diffusione dell’hate speech. Non si tratta quindi di un’analisi puramente quantitativa (quanti messaggi d’odio), ma qualitativa (quali meccanismi culturali li generano).
Sul punto il rapporto di Vox parla di “echo chambers” (“camere d’odio), dove i discorsi discriminatori trovano terreno fertile per moltiplicarsi, creando una “Piramide dell’odio” che si basa proprio sugli stereotipi radicati nella società.
Le conseguenze reali dell’odio online
Anche se si parla di messaggi, commenti e post su X, bisogna considerare che l’odio espresso online può tradursi in atti concreti come femminicidi o episodi di bullismo. Questa ottava edizione della Mappa dell’Intolleranza offre una visione più ampia e articolata dell’hate speech, costituendo non solo un punto di partenza per ulteriori ricerche, ma anche uno strumento per ripensare e riorientare i processi di prevenzione del discorso d’odio.
In dettaglio:
- Correlazione tra linguaggio d’odio e violenza fisica: i ricercatori suggeriscono l’esistenza di un legame tra la normalizzazione del linguaggio violento sui social e l’aumento di atti violenti nella vita reale. Quando l’odio diventa un elemento accettato nel discorso pubblico digitale, può abbassare la soglia di inibizione verso comportamenti aggressivi nella vita quotidiana;
- Femminicidi come esempio concreto: il rapporto cita specificamente i femminicidi come esempio di questa correlazione. La misoginia online contribuisce a creare un clima culturale che disumanizza le donne, rendendo più “accettabile” nel subconscio collettivo la violenza contro di loro;
- Bullismo e cyberbullismo: la ricerca evidenzia come l’odio online possa tradursi in episodi di bullismo nelle scuole o in altri contesti sociali. Il cyberbullismo spesso si intreccia con il bullismo tradizionale, creando un continuum di violenza che attraversa sia lo spazio digitale che quello fisico.
Sulla base di queste riflessioni gli autori sottolineano che “Emerge sempre di più la necessità di educare all’uso dei social network e di ripensare le relazioni fra mass media, piattaforme social e utenti”. Il rapporto chiama in causa la necessità di “ripensare le relazioni fra mass media, piattaforme social e utenti”, suggerendo che la soluzione non può limitarsi alla responsabilità individuale, ma deve coinvolgere tutti gli attori dell’ecosistema informativo.
Non si tratta solo di insegnare la netiquette, ma di formare cittadini consapevoli delle conseguenze reali che le parole online possono avere.