Iacomino (Emergency): “In Uganda le conseguenze dei tagli all’UsAid sono drammatiche. Tutti i dipendenti sono scomparsi da un giorno all’altro”
- 16/04/2025
- Popolazione
“Sono passati mesi, ma ricordo ancora nitidamente questa scena: una donna viene da me e con naturalezza mi dice: ‘Qui in Uganda non curiamo i bambini, ne facciamo altri’”. Con queste parole Giacomo Iacomino, Country Director di Emergency in Uganda, ci svela una realtà per noi inimmaginabile. O forse inesistente.
“In Uganda una donna partorisce mediamente quattro figli”. In Italia il tasso di fecondità ha raggiunto il minimo di 1,18 figli per donna secondo gli Indicatori demografici 2024 dell’Istat. “Il tasso di mortalità in Uganda è altissimo – spiega Iacomino – su mille bambini quarantacinque muoiono alla nascita, un tasso circa quindici volte superiore a quello dell’Italia”. Per quelli che se la cavano, la vita non è semplice: “I fattori ambientali, alimentari e culturali generano tantissime malformazioni. Se non vieni curato, non arrivi a vent’anni, muori prima”.
I medici, però, sono pochi e dopo i tagli all’Usaid decisi dal duo Trump-Musk rischiano di essere ancora meno: “In Uganda ci sono 0,09 medici per mille abitanti. In Italia, ogni mille abitanti, ce ne sono 5,5”. Se in Italia il Sistema Sanitario Nazionale è in crisi, in Uganda è quasi inesistente. Quei pochi operatori sanitari che ci sono rappresentano l’unica speranza per gli ugandesi. Nel Paese, “la sanità vale circa tre trilioni di shillings ugandesi ovvero circa 750 milioni di euro”. In Italia, nel 2024, la spesa pubblica per la sanità è stata di circa 138,7 miliardi di euro. Iacomino ci aiuta a capire le proporzioni: “In pratica, con i soldi di un ospedale importante italiano in Uganda si curano quarantacinque milioni di persone (popolazione totale, ndr.). Fino ad ora – spiega Iacomino – circa metà di questi fondi veniva data dal governo, mentre l’altra metà veniva messa proprio dall’Usaid. Tagliare questi fondi significa condannare a morte milioni di persone”. Eppure, basterebbe poco se si considera che “i patrimoni di alcuni degli uomini più ricchi al mondo messi insieme valgono undici volte il Pil dell’Uganda“, osserva amaramente.
Intanto, chi vive in Uganda vede già gli effetti dei tagli agli aiuti umanitari.
Le drammatiche conseguenze dei tagli all’UsAid
Donald Trump e il capo (uscente?) del Dipartimento per l’efficienza governativa Elon Musk non hanno dubbi: UsAid, la più grande organizzazione umanitaria del mondo, andava chiusa da tempo perché “guidata da pazzi estremisti di sinistra” che gestivano male i soldi, quando non se li intascavano. “Un’organizzazione criminale”, utilizzata per fini politici e per finanziare governi corrotti, sostiene il capo del Doge. Da qui l’imminente taglio ai finanziamenti. Diversi gli interventi di UsAid: sostegno alla salute delle donne nelle zone di conflitto, incentivi per i trattamenti dell’Hiv/Aids, per l’accesso all’acqua pulita, per la sicurezza energetica e altri. Una fitta rete di supporto destinata a scomparire.
Voi che siete sul campo avete già notato gli effetti dei tagli decisi dall’amministrazione Usa?
“Le conseguenze sono state immediate per un semplice motivo: solo nel 2024, UsAid ha messo a disposizione 40 miliardi di dollari in tutto il mondo e in Uganda questi fondi coprono (poco) più della metà della spesa sanitaria totale. L’idea che Trump abbia ritirato i fondi in un pianeta dove un bambino su undici per non morire ha bisogno di aiuti umanitari mi fa rabbrividire”, ci racconta Iacomino.
I tagli hanno generato effetti devastanti: “Da un giorno all’altro tutte le cliniche che dipendevano dai finanziamenti dall’UsAid hanno chiuso i battenti. Queste strutture – spiega il Country Director di Emergency in Uganda – si occupavano di curare, ma anche di fare informazione e sensibilizzazione soprattutto sull’Hiv, che in Uganda è una piaga. I fondi UsAid non coprivano solo gli stipendi dei professionisti, ma anche il costo dei farmaci. Così, da un giorno all’altro 1,4 milioni di persone affette da questo virus letale si sono trovate senza un percorso di cura”. In Italia, dove vivono circa 10 milioni in più di persone, le persone con l’Hiv sono circa 140.000.
Il taglio dei finanziamenti è un dramma per la popolazione locale e per chi in quelle cliniche ci lavorava: “Centinaia di operatori sono stati lasciati a casa senza stipendio”. UsAid aveva la sua sede a Kampala, capitale dell’Uganda. Occorre parlare al passato perché, come spiega Iacomino, “dal giorno successivo all’annuncio di Trump, tutti i dipendenti sono scomparsi, non ci non rispondono più al telefono. Li hanno imbarcati e mandati direttamente a casa. La sede, che fino al giorno prima forniva cura e salvava vite umane, è vuota”. La situazione descritta da Giacomo Iacomino, ingegnere di formazione, evidenzia tutte le fragilità di un sistema che dipende da decisioni politiche prese a migliaia di chilometri di distanza.

Quali possono essere le ricadute per Emergency?
“Noi come Emergency non prendiamo alcun finanziamento dalla UsAid, ma possiamo essere danneggiati indirettamente” perché le organizzazioni umanitarie di tipo medico vengono finanziate da più fonti (finanziamento multilaterale).
In pratica, “L’UsAid non finanziava la nostra associazione ma finanziava il governo ugandese che, a sua volta, copre circa metà delle spese di Emergency in Uganda. L’altra metà la copriamo noi direttamente”, dice Iacomino che spiega: “Il rischio è che il sostegno del governo venga meno per il buco lasciato dalla sospensione dei fondi a UsAid. Non sappiamo quale sarà il nostro futuro il governo ugandese stima molto quello che facciamo e farà di tutto per aiutarci. Ne sapremo di più a giugno quando il governo dovrà presentare la Legge di bilancio di quest’anno”.
Cosa rischia la popolazione locale
Per capire cosa rischiano gli ugandesi, bisogna considerare che “l’età media in Uganda è quindici anni. In pratica metà della popolazione è in età pediatrica”. L’ospedale di Emergency, che si trova nella città Entebbe, è l’unico che fa pediatria ad alto livello in Uganda. Se dovesse arrivare la chiusura o il ridimensionamento della struttura “rischiamo seriamente di non poter curare questi pazienti e di lasciarli senza un’alternativa valida”, aggiunge Iacomino.
In questa situazione di assoluta incertezza, quali sono le tue prospettive sul futuro di Emergency in Uganda?
“Aspettiamo la Manovra finanziaria di giugno per avere più informazioni; ora non sappiamo ancora se la situazione UsAid impatterà anche su di noi. Sicuramente le esigenze sanitarie del territorio non scompariranno; non ci possiamo dimenticare di un milione e quattrocentomila persone positive all’Hiv né di tutti gli altri ammalati. Per ora continuerò a ricevere ustionati, bambini con malformazioni, vittime di pratiche tradizionali. Le cose continueranno a succedere così in questo Paese”.
Il Country director di Emergency ci racconta l’aria che si respira nell’ospedale di Entebbe: “Siamo molto preoccupati perché rischiamo di dover ridurre drasticamente l’attività chirurgica. L’ipotesi di lasciare a casa i nostri quattrocentotrenta dipendenti è remota, e spero non si realizzi mai perché significherebbe lasciare senza una fonte di reddito altrettante famiglie. Nella maggior parte dei nuclei lavora solo una persona”.
Qual è la composizione del personale dell’ospedale?
“Il 90% sono ugandesi, mentre il restante 10% sono internazionali. Ad oggi – spiega Iacomino – nel progetto ci sono tredici nazionalità differenti, tra cui Venezuela, Spagna, Inghilterra, Malta, Serbia, Croazia, Italia…i collaboratori di Emergency arrivano da tutte le parti del mondo”.
Come è la vita in Uganda
Lontano dalle abitazioni degli imprenditori e delle classi più agiate, la maggior parte della popolazione “vive in capanne, tende o piccole case che dentro non hanno la cucina, il bagno e altre cose che a noi sembrano scontate”, spiega il Country Director di Emergency in Uganda.
La vita quotidiana presenta rischi costanti, soprattutto per i più piccoli: “Le mamme cucinano per terra e spesso usando dei pentoloni pieni di olio o di acqua bollente. Quando è il momento di cucinare o di mangiare, le famiglie vivono intorno a questi pentoloni e le conseguenze possono essere terribili: tantissimi bambini vengono ustionati dall’acqua o dall’olio bollente perché i pentoloni vengono appoggiati a terra e possono facilmente cadere se, distrattamente, vengono colpiti”.
La scelta di mettersi al servizio degli altri
Arrivato a un certo punto della tua vita, cosa ti ha spinto a scegliere questo percorso?
“Sarà che invecchiando si diventa più romantici, fatto sta che l’anno scorso, a 44 anni, mi sono fermato a fare il punto della situazione della mia vita”.
Una scelta che ha portato Iacomino a realizzare una verità tanto semplice quanto profonda: “Mi sono reso conto di essere un privilegiato. Sono nato in Italia, un Paese benestante dove esistono sanità, opportunità e servizi. Questo non è un merito, è fortuna. Ho avuto poi l’ulteriore fortuna di nascere in una famiglia che mi ha permesso di studiare”.
Il percorso professionale che ne è seguito è stato pieno di soddisfazioni. “Sono entrato quasi vent’anni fa nel mondo del lavoro. Da allora ho avuto l’opportunità di fare una carriera velocissima e rilevante nell’ambito del profit, tra ospedali privati accreditati e industria del medical device. Guadagnavo bene ed ero soddisfatto del mio lavoro”.
Allora perché hai deciso di mollare tutto e cambiare vita?
“A un certo punto ho sentito di dover restituire al mondo tutta la fortuna che ho ricevuto. È l’unica maniera per ricordarci che la vita è davvero un lancio di dadi”, come ci ricorda la Cicogna strabica di Checco Zalone.
Questa consapevolezza ha innescato un cambiamento radicale nelle priorità di Giacomo Iacomino. “Dovevo cambiare qualcosa nella mia vita. Andava bene la carriera, ma non stavo dando il mio contributo al mondo. Stavo facendo arricchire aziende già ricche di loro. Sentivo di dover guardare oltre il mio perimetro”.
La scelta dell’organizzazione con cui collaborare è stata naturale. “Sono della generazione che ha conosciuto quello che ha fatto Gino Strada; quindi, quando ho deciso di affacciarmi al mondo del no profit, non avevo dubbi su quale organizzazione scegliere”.
Il passaggio dal mondo profit a quello umanitario non è stato però privo di ostacoli. “Emergency mi ha proposto il progetto Uganda. Gli operatori internazionali (non ugandesi) non sono dipendenti in senso stretto, ma persone che tendenzialmente prendono aspettativa dal lavoro per una media di sei mesi, danno il loro contributo e poi ritornano alla loro occupazione precedente. Quando, però, ho chiesto l’aspettativa all’azienda di medical device per cui lavoravo, la risposta è stata negativa. Sapevano che volevo svolgere questa missione pediatrica nel terzo mondo, ma mi hanno negato l’aspettativa. A quel punto ho preso la mia decisione: mi sono licenziato e sono partito pur sapendo che quando tornerò in Italia non sarò più molto appetibile per il mercato del lavoro visto che ho 45 anni”.
Queste missioni hanno la durata media di sei mesi per permettere agli operatori di rielaborare quello che stanno vivendo. Per lo stesso motivo, medici e infermieri tornano a casa per due settimane ogni sei mesi. “Di solito lavoriamo sei giorni a settimana, ma da un po’ di tempo la situazione è così critica che non mi fermo mai, neanche la domenica”, confessa Iacomino. Raramente c’è chi resta in missione per più di un anno ma c’è anche chi sceglie di rimanerci per moltissimi anni. In ogni caso, ogni cinque mesi di lavoro ce n’è uno di pausa.

Di cosa si occupa un Country director?
“Le responsabilità di quello che comunemente chiamiamo ‘Capo missione’ sono essenzialmente tre: in primis è il Direttore generale dell’ospedale di Emergency; quindi, si assicura che ci siano le condizioni per farlo funzionare, organizza il lavoro dell’istituto in ogni aspetto e ne valuta l’operatività.
In secondo luogo, il Country Director è a capo della sicurezza non solo dei dipendenti, ma anche delle infrastrutture. Io ho il privilegio di dirigere un gioiellino, il Children’s Surgical Hospital, l’ospedale che è stato sognato da Gino Strada e realizzato da Renzo Piano. Già questo, di per sé, mi fa sentire una certa responsabilità”, osserva Iacomino. C’è poi un discorso di sicurezza esterna che non va sottovalutato: “ Si tratta sempre di contesti in cui povertà e diseguaglianze economiche e sociali possono generare episodi spiacevoli e mettere in difficoltà”.
Anche la condizione geopolitica presenta i suoi rischi: “L’Uganda è un Paese stabile ma è comunque una Repubblica presidenziale il cui presidente, Yoweri Kaguta Museveni, ha governato ininterrottamente negli ultimi quarant’anni.”, spiega l’ingegnere. Le prossime elezioni si terranno il 12 gennaio 2026. Museveni è il leader del Paese dal 29 gennaio 1986.
La terza responsabilità è essere a capo delle relazioni istituzionali con ministeri, ambasciate, press, media e simili”.
Come vi fate riconoscere dalla popolazione locale per evitare di finire bersaglio della microcriminalità?
“Tendenzialmente abbiamo le magliette di Emergency e il badge identificativo. In ospedale siamo facilmente riconoscibili.
La presenza dell’organizzazione è comunque ben nota nella zona. “Noi siamo a Entebbe, l’ex capitale, una piccola cittadina dove più o meno ci riconoscono tutti e sanno distinguere chi appartiene a Emergency anche perché ci muoviamo attraverso le auto di Emergency, veicoli bianchi con il logo e il simbolo del divieto di armi a bordo”, spiega Iacomino.
L’apporto di Emergency in Uganda
Se ciò che accadrà in futuro è incerto, quanto fatto finora da Emergency in Uganda è testimoniato dai numeri: “Abbiamo aperto le porte dell’ospedale il 19 aprile 2021; da quel giorno ad oggi abbiamo fatto oltre trentacinquemila visite ambulatoriali e più di cinquemila chirurgie, tutto senza prendere un centesimo dai pazienti.
Solo nel 2024 abbiamo trattato più di millequattrocento bambini in fisioterapia. Questa struttura potrà continuare a brillare come l’unico ospedale veramente pediatrico in Uganda solo se continueranno ad esserci i fondi”, ribadisce.

Riuscite a migliorare la situazione sanitaria al di fuori dell’aspetto ambulatoriale?
“Noi cerchiamo di rendere la popolazione ugandese quanto più autonoma possibile.
Per questo, oltre agli interventi, ci occupiamo della formazione dei genitori e dei dipendenti ugandesi. Abbiamo intensi programmi di formazione per chirurghi, anestesisti, infermieri e tecnici. È proprio una delle missioni portate avanti dall’ospedale.. Dobbiamo dimenticarci il nostro mondo: “Qui i lavandini non esistono, per riprodurli viene creata una particolare struttura in legno che, in qualche modo, svolge la stessa funzione del lavandino. Dobbiamo insegnare ai genitori dei nostri pazienti che devono lavarsi le mani prima di cambiare la garza e tutta una serie di indicazioni che a noi sembrano ovvie. L’anno scorso abbiamo erogato health promotion a più di settemilaseicento genitori, partendo da queste basi.” spiega il country director di Emergency in Uganda.
Nella lunga intervista con Demografica, Giacomo Iacomino ha descritto una realtà quasi incredibile per noi che, parafrasando Primo Levi, viviamo sicuri nelle nostre tiepide case. Un Paese dove il trapasso è all’ordine del giorno: “Qui le madri hanno esorcizzato la morte, ma questo non significa che faccia meno male. Alcune mamme vengono da me disperate, mi chiedono se possiamo salvare i loro figli, se possiamo dar loro una nuova speranza portandoli in Italia, ma al momento non esistono procedure agevoli per farlo.
Quello che ci basterebbe – conclude il Country Director – è poter continuare a curare queste persone, altrimenti condannate alla malattia o ad una morte precoce. Non perché abbiano colpe, ma solo perché sono nati nel posto sfortunato”, a migliaia di chilometri dai palazzi che, tagliando i fondi, rischiano di spezzare il loro futuro.