Perché il Sistema Sanitario Nazionale non può più bastare: la sanità integrativa secondo ONWS
- 14/10/2024
- Popolazione
Il Sistema Sanitario Nazionale non può dare tutto a tutti, sempre: il carico diventerebbe insostenibile, come in effetti già è adesso, tanto più in una società che invecchia. Ed è proprio qui che occorre cogliere l’opportunità non pienamente sfruttata della sanità integrativa e realizzare un sistema multi -pilastro. Parte da questo assunto Ivano Russo, presidente di ONWS, Osservatorio Nazionale Welfare & Salute, che l’Adnkronos ha sentito per fare chiarezza sul tema e sul perché il cosiddetto ‘secondo pilastro’ della sanità, quello che viene subito dopo il SSN, sia così importante nel mondo di oggi.
D: Innanzitutto, chiariamo: la sanità integrativa non è quella privata. Cos’è allora?
R: “Quando parliamo di sanità integrativa parliamo della sanità che discende dal welfare aziendale e cioè dalle scelte che le parti sociali compiono – all’atto della stipula o dei rinnovi dei contratti collettivi nazionali di lavoro – di destinare una quota della retribuzione al welfare aziendale. Quindi la scelta è assunta da parti datoriali e sindacati e per ognuna delle grandi categorie coinvolte – edili, artigiani, metalmeccanici, commercio, logistici, qualunque categoria – diventa un fondo che eroga prestazioni sanitarie ispirate ai principi di mutualismo e collettività”.
Il che significa che tutti i dipendenti che fanno capo a un determinato contratto hanno le stesse prestazioni e le stesse tutele che vengono erogate in base al piano sanitario previsto da quel contratto. Si tratta di una differenza sostanziale rispetto alle assicurazioni private, dove il singolo negozia per se stesso in base a fattori come la sua età e alle patologie pregresse, elementi che incidono sul peso del premio che dovrà pagare.
Nella sanità integrativa le assicurazioni invece sono uno degli strumenti, ma non è l’unico, insomma non sono la stessa cosa: “Non c’è una sovrapposizione concettuale tra la sanità integrativa e le assicurazioni”.
Il secondo Pilastro si inserisce nella crisi del sistema sanitario nazionale. Ma quali sono i nodi di questa crisi e come la sanità integrativa può contribuire quantomeno ad alleggerirne gli effetti?
“In tutti i Paesi europei evoluti ci sono sistemi sanitari nazionali multi Pilastro, cioè il sistema sanitario nazionale, quello della sanità integrativa, la sanità privata pura – perché nessuno può vietare un cittadino che magari ha disponibilità di andarsi a fare una radiografia o una visita a pagamento dove vuole-, e poi c’è il settore intermediato assicurativo delle polizze individuali.
Il tema è che tutti questi quattro pilastri, che se governati e integrati dovrebbero dare risposta complessiva al bisogno di cure di un Paese, in Italia sono tutti autonomi, non comunicanti e non governati da un indirizzo strategico nazionale e soprattutto alcuni, come nel caso del secondo Pilastro, potrebbero crescere molto di più. Quando parlo di crescita non mi riferisco a risorse: il nostro è un settore di welfare sussidiario, nel senso che le aziende e i lavoratori mettono di tasca propria i soldi, piuttosto è un tema di avere un quadro regolatorio più certo. Se ci fosse un quadro regolatorio complessivo di tutte e quattro le funzioni, sicuramente il sistema sanitario nazionale nel suo insieme potrebbe essere molto più performante; invece non essendo così noi abbiamo praticamente la quasi totalità della domanda di salute che in primissima battuta si deve rivolgere per forza al Servizio Sanitario Nazionale. In Francia e in Germania, ad esempio, la sanità integrativa copre il 75% della popolazione, da noi il 24%, e quella è tutta una domanda di cura che invece di andare a rivolgersi ai fondi sanitari si riversa sulle strutture pubbliche”, mettendo sotto pressione l’intero sistema. “È un tema enorme, purtroppo sempre poco indagato”.
“Il problema principale del Sistema Sanitario è questo di carico, di domanda di cura legata anche al fatto che siamo la popolazione più anziana d’Europa e la seconda più anziana al mondo dopo il Giappone. Tutto questo ovviamente produce un’esigenza di sanità che è crescente e che si allaccia a temi come le pluri-patologie e le cronicità, perché l’anziano o il malato cronico tornano ciclicamente a fare cure e controlli.
Ecco allora che il lavoratore medio quaranta-cinquantenne mediamente sano che debba fare ad esempio la mappa di nei o un check up di controllo non la dovrebbe mai vedere una struttura pubblica perché tutte queste cose sono offerte dai piani sanitari di fondi contrattuali.
Se tu bilanci così puoi riorganizzare e razionalizzare la spesa. Invece oggi il sistema sanitario nazionale va per fatti suoi con le risorse scarse che ha rispetto alle esigenze di cure di un Paese che invecchia. Il secondo Pilastro è completamente sregolato, non c’è neanche un dato certo su quanti siano gli assistiti e quanti siano i fondi.
Attualmente, il Fondo Sanitario Nazionale cuba 134 miliardi di euro, poi ci sono 41 miliardi di euro di spesa out-of-pocket, cioè la spesa privata dei cittadini, che è la più alta d’Europa, poi abbiamo 25 miliardi di spesa socio-assistenziale che è parente stretta della spesa sanitaria, ad esempio l’infermiera che viene a casa dal parente anziano allettato, e poi altri 25 miliardi di spesa socio-assistenziale pubblica in generale, diciamo i cosiddetti assegni di invalidità o di accompagnamento. Tutta questa roba è quasi 210-220 miliardi: è chiaro che non se ne può fare carico solo uno Stato. Più si mette sul fondo sanitario nazionale più è meglio è per principio, però non è questa la risposta”.
La differenza rispetto agli altri Paesi che ha citato a cosa è dovuta?
“Sostanzialmente il welfare contrattuale è previsto per legge, il datore di lavoro non può non iscrivere il lavoratore a un fondo sanitario, ma non c’è alcun tipo di sanzione nel caso in cui le aziende non si adeguino. Questo è un vuoto normativo che andrebbe colmato: c’è circa il 50% di aziende che non lo fa, il che produce due danni. Il primo è che lascia fuori 8-9 milioni di lavoratori e rispettive famiglie che avrebbero diritto ad avere la copertura Sanitaria Integrativa e non ce l’hanno; secondo ingenera una concorrenza sleale tra le imprese perché ovviamente chi non paga ha meno costi. Invece in Francia questo problema non c’è, come non ci sono 120 miliardi all’anno di evasione fiscale, è un concetto più generale di etica pubblica e rispetto delle norme”.
Questo problema riguarda in generale anche chi lavora a nero.
“Chi lavora in nero ha un problema a 360 gradi, non ha contributi, non paga le tasse, è un disastro, però cominciamo da chi non lavora a nero. Noi abbiamo 16 milioni di lavoratori dell’industria privata che non lavorano a nero e sono articolati più o meno in un’ottantina di grandi contratti collettivi nazionali: tutti questi hanno la sanità integrativa”.
Oltre alla differenze con gli altri Paesi, l’Italia ha anche differenze regionali.
Infatti due terzi dell’elusione contributiva che dicevo è delle imprese del Mezzogiorno.
E su questo cosa può fare la sanità integrativa?
“La norma di contrasto dell’elusione serve per tutti, purtroppo più le imprese sono piccole e destrutturate, per capirci meno sono sindacalizzate, meno hanno gli uffici HR, più dinamiche comunque complesse come queste del welfare contrattuale sono in affanno. Siccome nel Centro Sud il tessuto industriale tranne la grande industria di Stato è quasi tutto così, è chiaro che lì si addensa la maggior parte dell’elusione. Noi come osservatorio Nazionale Welfare & Salute abbiamo presentato una proposta di legge che prevede di spostare l’esigibilità del diritto dal lavoratore al fondo di categoria. Ovviamente è difficile trovare un lavoratore che denuncia il suo datore di lavoro, rischiando di perdere il posto, perché non è iscritto al fondo sanitario. Se invece questa esigibilità fosse quantomeno cointestata anche al fondo di categoria, sarebbe diverso perché il fondo può rivolgersi alle aziende che non risultano iscritte mettendole in mora. Come sempre le soluzioni sono molto più semplici di quanto non appaiano”.
Diceva che Primo e Secondo pilastro sono scollegati. Cosa manca per avere una reale integrazione?
“Manca tutto: sono due pilastri assolutamente non comunicanti tra loro: il Servizio Sanitario Nazionale non sa che prestazioni offrono i fondi sanitari, a quante persone ogni anno, in che parte d’Italia perché ovviamente non c’è nessun vincolo di comunicazione da parte della sanità integrativa, ma non c’è nemmeno un ufficio che ad oggi accoglierebbe queste informazioni. Tra l’altro avendo un sistema nazionale essenzialmente regionalizzato, si fa anche fatica ad ottenere dati nazionali. Ad esempio non esiste un nomenclatore unico: ogni regione ha il suo e ovviamente idem nel privato. Ma se vuoi creare comunicazione tra primo e secondo Pilastro l’elemento di base è avere un’interpretazione univoca della raccolta dei dati, quindi è indispensabile avere un nomenclatore unico nazionale”.
Quali altre priorità chiederebbe al governo?
“La lotta all’elusione, perché non è possibile avere 9 milioni di italiani e rispettive famiglie senza la sanità integrativa che pur spetta loro. Poi secondo me andrebbero modificati gli ambiti operativi: il secondo Pilastro per essere veramente il più possibile integrativo deve partire dalle esigenze del primo: se lo Stato dicesse alla sanità integrativa ‘Per i prossimi tre anni concentrati sugli interventi ambulatoriali, le visite specialistiche e gli extra Lea’, uno potrebbe immaginare che i vari piani sanitari si adeguino a questa esigenza, altrimenti continuiamo a ragionare inutilmente se sia integrativo, sostitutivo, complementare, se debba fare più extra Lea e non Lea, o più Lea”.
Questo governo, secondo lei, fa orecchie da mercante oppure lo trova più pronto a cambiare qualcosa?
“Io sono fiducioso nel senso che è un governo che non ha un pregiudizio ideologico, a differenza di alcune forze politiche che considerano qualsiasi cosa appartenga alla sfera non pubblica come quasi sataniche o da respingere: questo governo invece può avere un approccio un po’ più laico. Dopo di che paradossalmente mentre dico questo dico che l’esigenza del settore è avere più governance, più strategia, più visione nazionale. Ci vorrebbe più Stato ma in forma giusta, che organizzi i quattro pilastri; invece, non riesce a organizzare nemmeno il suo.
Nel Piano strutturale di bilancio presentato dal ministro Giorgetti ci sarebbe una riforma della sanità integrativa; quali sono i punti di questa riforma?
“Non ne ho la più pallida idea. Non ne sappiamo nulla. C’è invece un lavoro importante fatto dal presidente Zaffini in commissione sanità del Senato che ha fatto un lungo ciclo di audizioni che si sta completando proprio in questi giorni dove sono state sentite tutte le parti sociali, sindacali, associazioni. Siamo stati auditi anche noi e ha partecipato la ministra del Lavoro Marina Calderone.
Lì sono emerse tante proposte interessanti sulla riforma degli ambiti operativi, sul contrasto all’elusione, sulla vigilanza, su come coinvolgere Agenas. Speriamo che il governo ne tenga conto perché veramente è stato fatto un lavoro considerevole e sarebbe un peccato sprecarlo”.
Tra l’altro Calderone diceva che sarebbe necessaria una campagna di informazione su questi temi. Immagino che sia d’accordo visto che questo è anche uno degli obiettivi dell’Osservatorio Nazionale Welfare & Salute.
“Assolutamente: dobbiamo far passare un messaggio, perché purtroppo la gente confonde la sanità integrativa con la sanità privata. Mentre invece per noi è completamente indifferente che l’erogatore delle prestazioni sia il pubblico o il privato, l’importante è che i lavoratori abbiano le prestazioni. La sanità integrativa è la sanità dei lavoratori, cioè la sanità di 16 milioni di persone che guadagnano 1400-1600 euro e che con una media di 198 euro all’anno di versamenti da parte dell’azienda, il costo dell’abbonamento di Netflix, hanno protezione sanitaria con un tetto di prestazione media di 5-6 mila euro: questa è una cosa enorme, è salario reale vero.
Secondo me la campagna innanzitutto dovrebbe rendere i lavoratori più consapevoli dei propri diritti perché tante volte la fruizione dei piani sanitari è veramente bassa: il 25-35%. Tranne nei casi di collettività di lavoro molto molto giovani è probabile che il piano non venga utilizzato non perché non ce ne sia bisogno ma perché non lo si conosce, e quindi c’è bisogno eccome di una campagna di sensibilizzazione”.
Parlando di prestazioni, c’è un controllo sulla qualità di quanto viene erogato tramite sanità integrativa, come avviene nel pubblico?
“Non c’è un ente di vigilanza nazionale sulla sanità integrativa, purtroppo”. Ma “dovrebbe assolutamente esserci, ovviamente deve essere costruito bene non deve essere come dire un’attività poliziesca. Perché non bisogna avere un approccio negativo a prescindere nei confronti del settore, ma comunque andrebbero fissati anche dei requisiti minimi a livello nazionale in relazione ai piani sanitari e avere vigilanza, per esempio sul tema della cosiddetta appropriatezza delle cure”.
A questo proposito, la sanità integrativa può aiutare il problema delle liste d’attesa oppure potrebbe rischiare piuttosto di alimentarlo?
“Potrebbe in teoria alimentarlo, ma tutti i fondi sanitari prevedono che tu possa accedere alla prestazione solo su prescrizione medica; quindi, ovviamente se un medico ti prescrive un accertamento inutile il problema è il medico e non la clinica che te lo fa. Quello dell’appropriatezza della cura è un tema generale per via della medicina difensiva” la cui soluzione andrebbe approcciata “innanzitutto eliminando tutto questo aggravio di reati penali in capo ai medici”.
Quali sono i nuovi bisogni di welfare che sono emersi, principalmente, dopo il covid?
“Tutto quello che è check up e prevenzione durante il covid è stato accantonato, per cui sicuramente c’è un’esigenza molto molto forte di recuperarlo. Qualunque sistema sanitario maturo ed evoluto in tutto il mondo è fondato sulla prevenzione, che riduce la probabilità di malattie, soprattutto quelle cardiovascolari, e di conseguenza a regime diminuisce i costi per il Servizio Sanitario Nazionale. Poi le solite prestazioni, quelle che SSN ha più difficoltà a fornire, a cominciare dalla specialistica e dall’alta diagnostica.
Poi ci sono tutti gli extra Lea, cioè tutte quelle prestazioni che il SSN non prevede – fisioterapia, mental coach, psicoterapia, fino all’odontoiatria. Se non c’è la possibilità da parte dei lavoratori di poter avere una fonte alternativa, questa diventa tutta spesa privata secca che grava solo sulle tasche dei cittadini”.
Quanto agli stili di vita più sani, anche questi possono rientrare nella sfera d’azione della sanità integrativa?
“Questo è un pezzo fondamentale, soprattutto su collettività giovani: tutti i dati ci dicono che di fronte ad una corretta alimentazione, a un corretto sonno e ad un’adeguata attività fisica tutta una serie di patologie, soprattutto quelle che poi hanno risvolti di cronicizzazione, quindi quelle più impattanti sia per la vita di un cittadino che per le casse dello Stato, hanno una riduzione molto significativa. Quindi su questo lo Stato e i fondi di sanità integrativa dovrebbero investire molto, soprattutto dove ci sono collettività giovani in modo da abbattere quelli che poi saranno i costi di cura di una persona di 60-65 anni”.
Come si svolge il ruolo della sanità integrativa nella promozione di uno stile di vita sano?
“La sanità integrativa oggi eroga molte prestazioni al riguardo, ad esempio piattaforme digitali che ti accompagnano dal punto di vista della gestione dell’alimentazione o del movimento, l’educazione alimentare, le attività di monitoraggio contro l’abuso di alcol che tra l’altro è un fenomeno dilagante fin dai 12-13 anni: anche su questo si possono mixare campagne di prevenzione con vere e proprie prestazioni”.
Un’ultima domanda: la sanità integrativa quindi è il futuro della sanità?
“Sicuramente a regime io vedo un futuro dove il cosiddetto day by day sanitario, dalla mappa dei nei a un’ecografia alla radiografia perché mi sono slogato il polso giocando a calcetto, più tutto un pezzo di extra Lea, fisioterapia, eccetera, è completamente sparito dall’orizzonte dell’impatto sul pubblico. Io vedo grandi ospedali dedicati innanzitutto agli indigenti perché non dimentichiamo che c’è anche una popolazione di non lavoratori, anziani, quiescenti, disoccupati. L’articolo 32 della Costituzione dice che ‘la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti’. Non a tutti quanti, perché è immaginabile poter dare tutto a tutti sempre.
Quindi io comincerei a far concentrare il sistema sanitario nazionale sugli indigenti o su chi non ha altre opportunità e poi immagino che attraverso l’utilizzo maggiore e più strutturato della sanità integrativa si possa magari andare a recuperare un po’ di risorse che consentono agli ospedali di modernizzare i macchinari, di investire sulla ricerca. Penso alle grandi eccellenze.
Nessuno di noi si sognerebbe di farsi un’operazione a cuore aperto o un trapianto di fegato in una clinica privata, quindi ci sono anche tutta una serie di grandi interventi chirurgici e altro che non possono che essere fatti in ambito di sanità pubblica, ma il day by day sanitari quotidiano medio di una persona sana secondo me a regime in un Paese che invecchia non potrà più gravare sulle strutture pubbliche.
Non si rischia di andare verso un modello tipo Stati Uniti?
No, perché lì non esiste proprio il concetto di collettività, lì c’è ogni cittadino che si assicura. Quando un cittadino si assicura negozia in cambio di un premio il suo piano sanitario. Un’assicurazione di medio alta copertura per un cittadino medio di 45/50 anni costa intorno ai 1500-1800 euro all’anno- se ti porti dentro il nucleo familiare anche 3000 euro. E il piano sanitario tuo è solo tuo. Qui invece stiamo parlando di milioni e milioni di Italiani che hanno tutti lo stesso diritto alle cure, lo stesso piano sanitario, le stesse prestazioni, pagando non loro ma i loro datori di lavoro e non 1800 euro ma 190 euro all’anno. Il sistema americano è proprio un altro film”.
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