“Genitore 1” e “Genitore 2” sulle carte di identità dei minori, ok della Corte d’Appello di Roma
- 16/02/2024
- Popolazione
Genitore 1 e genitore 2 sono diciture lecite. Questo ha previsto ieri, 15 febbraio 2024, la Corte d’appello di Roma con una sentenza cruciale per i diritti delle famiglie arcobaleno in Italia.
La Corte ha confermato la decisione del Tribunale del 2022, che aveva dichiarato illegittimo il decreto del ministero dell’Interno del 2019, allora presieduto da Matteo Salvini, laddove imponeva la dicitura “padre” e “madre” sulla carta d’identità dei minori, invece di “genitore 1” e “genitore 2”.
La sentenza di primo grado era stata impugnata dal Viminale, che riteneva ingiusta questa dicitura affermando la necessità di un padre ed una madre per ciascun bambino. L’appello è stato però respinto e il ministero condannato a pagare le spese processuali, nonché a rilasciare un documento conforme alla reale composizione della famiglia.
Genitore 1 genitore 2, cosa prevedeva il decreto del ministero
La sentenza di ieri è il risultato di una lunga battaglia legale intrapresa da una coppia di donne di Roma, che al Tribunale capitolino di annullare il decreto del Viminale e di riconoscere il loro diritto ad essere indicate come genitori della loro figlia, nata da una delle due e adottata dall’altra. La coppia si era rivolta al tribunale dopo aver ricevuto una carta d’identità della figlia con la dicitura “madre” e “padre”.
Non solo una questione di diritti, ma anche burocratica, visto che le diciture riportate sul documento di identità erano in contrasto con quanto riportato nei registri dello stato civile.
Il decreto del ministero dell’Interno era stato emanato nel 2019, quando il ministro era Matteo Salvini, leader della Lega e vicepremier del governo Conte I. Il decreto prevedeva che, per le carte d’identità elettroniche dei minori, fossero utilizzati i modelli ministeriali con le diciture “padre” e “madre”, e non più “genitori”. Il decreto era stato motivato con la necessità di uniformare i documenti italiani a quelli europei e di evitare confusione e falsificazioni.
Tuttavia, il provvedimento era stato subito contestato da diverse associazioni, avvocati, politici e cittadini, che lo ritenevano discriminatorio, illegittimo e lesivo dei diritti dei minori e delle famiglie arcobaleno. Infatti, il decreto non teneva conto delle diverse situazioni familiari esistenti in Italia, come le coppie dello stesso sesso con figli, le famiglie ricomposte, le famiglie monogenitoriali, le famiglie adottive, le famiglie affidatarie, le famiglie omogenitoriali.
Un disposto che, hanno sottolineato gli oppositori, andava in contrapposizione anche con l’articolo 3 della Costituzione che sancisce l’uguaglianza di tutti i cittadini.
Inoltre, il decreto contraddiceva le norme sullo stato civile, che prevedono la possibilità di indicare il genere del genitore e di adottare il figlio del partner. Nelle sue motivazioni, la Corte d’Appello ha evidenziato anche altre criticità poste dal decreto.
Come si è arrivati alla sentenza
Il tribunale di primo grado ha accolto il ricorso e ha dichiarato illegittimo il decreto, riconoscendo il diritto della coppia a essere indicate come genitori della loro figlia.
Già in quella occasione i giudici hanno affermato che il decreto viola:
- Il principio di uguaglianza;
- il diritto all’identità personale;
- il diritto alla vita privata e familiare;
- il diritto alla salute;
- l’interesse del minore.
Su quest’ultimo punto giova ricordare che, in caso di contrasto con altri interessi, per l’ordinamento l’interesse di soggetti più fragili, come i minori, prevale sugli altri.
Il tribunale ha inoltre sottolineato che il decreto è in contrasto con la giurisprudenza nazionale e internazionale, che riconosce la validità delle famiglie arcobaleno e il diritto dei minori a crescere in un ambiente affettivo e protettivo.
Accogliendo la richiesta della coppia, il tribunale ha sottolineato come il documento emesso in contrasto con i registri dello stato civile potesse configurare un “falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale in atto pubblico”.
Motivazioni che non hanno convinto il ministero dell’Interno che ha impugnato il provvedimento alla Corte d’appello di Roma, sostenendo la legittimità del decreto e la necessità di mantenere le diciture “padre” e “madre”. Il Viminale ha anche invocato il principio di sussidiarietà, fissato dall’articolo 118 della Costituzione. Qui si dispone che debba intervenire prima l’ente più vicino al cittadino, e si debba andare ad un livello più “alto” solo se il primo ente non può soddisfare la questione. Secondo quest’ordine, quindi, il primo ente che deve entrare in azione è il comune, poi la provincia/città metropolitana, la regione, e così via. In base a questo principio, ha sottolineato il ministero, le questioni relative alla famiglia e alla filiazione spettano agli Stati membri e non all’Unione europea.
Il Viminale ha inoltre negato che il decreto sia discriminatorio o lesivo dei diritti dei minori e delle famiglie arcobaleno, affermando che il provvedimento si limita a regolare l’aspetto formale dei documenti e non quello sostanziale dei rapporti familiari.
Genitore 1 e genitore 2, cosa ha detto la Corte d’Appello
Con la sentenza del 15 febbraio 2024, la Corte d’Appello di Roma ha respinto la richiesta del Viminale e ha confermato la sentenza del tribunale, ritenendo il decreto illegittimo e contrario ai diritti fondamentali il decreto del Ministero dell’Interno emanato nel 2019.
Nello specifico, la Corte ha ribadito che la carta d’identità deve rispecchiare i dati personali che risultano nei registri dello stato civile, e che quindi non si può imporre una dicitura che non corrisponde alla reale composizione della famiglia. La Corte ha anche ricordato che esistono diverse forme di famiglia e di filiazione, che devono essere tutelate e riconosciute, e che il decreto non è conforme alle norme nazionali e internazionali in materia di famiglia e di minori.
Sulla base di queste motivazioni, la Corte ha quindi ordinato al ministero di rilasciare una carta d’identità con la dicitura “genitore 1” e “genitore 2” o una dizione equivalente, e di pagare le spese processuali, come di solito accade per la parte soccombente nel processo.
Le reazioni alla sentenza
La sentenza della Corte d’appello di Roma è stata accolta con soddisfazione e gioia dalla coppia di donne che aveva portato la causa prima davanti al Tar del Lazio e poi in Tribunale e dalle associazioni che le hanno sostenute.
Di segno opposto la reazione del vicepremier Matteo Salvini, che sui social commenta così la sentenza: “Decisione sbagliata. Ognuno deve sempre essere libero di fare quello che vuole con la propria vita sentimentale, ma certificare l’idea che le parole ‘mamma’ e ‘papà’ vengano cancellate per legge è assurdo e riprovevole. Questo NON è progresso”.
Solo pochi giorni fa si è riacceso il dibattito sul tema dopo la notizia della bozza di revisione del regolamento regionale del Piemonte che escluderebbe lesbiche, gay, bisessuali o transgender dalla possibilità di prendere un minore in affidamento, sia che a richiedere l’affidamento sia una coppia, sia che la richiesta arrivi da un singolo individuo.
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