Il maschio Alpha non esiste in natura: cosa dice la scienza sulla dominanza maschile
- 22 Luglio 2025
- Famiglia Popolazione
Per decenni abbiamo creduto che la natura fosse governata da maschi alfa: lupi dominanti che comandano il branco, primati che impongono la propria volontà con la forza, società animali strutturate secondo gerarchie rigide dove il più forte detta legge. Questa narrazione ha permeato non solo la nostra comprensione del regno animale, ma ha anche influenzato profondamente i modelli comportamentali umani, alimentando stereotipi sulla mascolinità e la leadership. Eppure, la ricerca scientifica moderna dimostra che, in natura, niente di tutto ciò è vero.
Lo studio che smonta gli stereotipi
Lo studio più recente e significativo che demolisce definitivamente il mito del maschio alpha è stato pubblicato questo mese sulla rivista Pnas da un team franco-tedesco guidato da Elise Huchard dell’Università di Montpellier.
La ricerca, che rappresenta il più ampio studio mai condotto sulle dinamiche di dominanza tra i primati, ha analizzato 253 popolazioni di 121 specie diverse nel corso di cinque anni, includendo scimmie, lemuri, tarsi e lori. I ricercatori hanno esaminato migliaia di interazioni tra maschi e femmine, catalogando episodi di aggressione, minacce e comportamenti di dominanza o sottomissione.
I risultati sono stati impressionanti: solo nel 17% delle popolazioni studiate si osserva una chiara dominanza maschile, mentre le femmine dominano nel 13% dei casi. Il dato più sorprendente riguarda il restante 70% delle popolazioni, dove né maschi né femmine mostrano una dominanza sistematica, contraddicendo completamente l’idea di gerarchie rigide basate sul sesso.
“Per molto tempo abbiamo avuto una visione completamente binaria di questa questione”, spiega Elise Huchard, autrice principale dello studio. “Pensavamo che una specie fosse dominata dai maschi o dalle femmine – e che questo fosse un tratto fisso. Recentemente, questa idea è stata messa in discussione da studi che mostrano che la verità è molto più complicata”.
La ricerca ha inoltre rivelato che gli scontri tra membri del sesso opposto sono molto più frequenti di quanto si pensasse in precedenza: in media, più della metà delle interazioni all’interno di un gruppo coinvolge un maschio e una femmina e non esemplari dello stesso sesso.
Cosa caratterizza la dominanza maschile e quella femminile
Quando la dominanza maschile si manifesta effettivamente, è quasi sempre associata a vantaggi fisici evidenti – come corpi più grandi o denti più sviluppati – e si osserva principalmente nelle specie che vivono all’altezza del suolo, dove le femmine hanno poche possibilità di fuggire o nascondersi. Al contrario, la dominanza femminile riscontra quando le femmine controllano l’accesso alla riproduzione.
Il caso dei bonobo
Un esempio emblematico riguarda è quello delle scimmie bonobo: nella maggior parte dei primati, l’estro – il periodo di fertilità della femmina – è chiaramente visibile attraverso gonfiori genitali vistosi, cambiamenti comportamentali evidenti e segnali olfattivi intensi. Questo “annuncio pubblico” della fertilità crea competizione diretta tra i maschi, che possono identificare precisamente quando una femmina è ricettiva.
I bonobo hanno evoluto un sistema diverso: le femmine mantengono gonfiori genitali per periodi molto più lunghi rispetto al loro effettivo periodo fertile, ma i segnali sono meno pronunciati. Inoltre, possono essere sessualmente attive anche al di fuori dei giorni di ovulazione, rendendo quasi impossibile per i maschi determinare con certezza quando una femmina sia realmente fertile.
Questa “segretezza” biologica conferisce alle femmine di bonobo un potere negoziale straordinario. Non potendo prevedere il momento ottimale per la riproduzione, i maschi non possono concentrare i loro sforzi competitivi in finestre temporali specifiche e sono quindi le femmine a scegliere il partner liberamente, senza subire imposizioni gerarchiche.
La nascita di un mito scientifico
Ma allora perché abbiamo sempre creduto al mito del “maschio alpha” che, tra l’altro, continua a danneggiare profondamente la nostra società creando giovani spaesati, insicuri e violenti?
La storia del “maschio alfa” inizia nel 1947 con Rudolph Schenkel, uno zoologo svizzero che studiava il comportamento dei lupi in cattività. Schenkel osservò che questi animali, rinchiusi artificialmente insieme, sviluppavano rigide gerarchie dominate da una coppia di “animali alfa” che controllavano il gruppo attraverso “incessante controllo e repressione di ogni tipo di competizione”.
Il termine fu poi ripreso da David Mech nel suo influente libro del 1970 “The Wolf: Ecology and Behavior of an Endangered Species”, consolidando l’idea che i lupi vivessero sotto il dominio spietato di un maschio alfa. Il concetto si diffuse rapidamente, trasformandosi da osservazione scientifica limitata a paradigma universale per comprendere le dinamiche sociali animali e, per estensione, umane. Frans de Waal, celebre primatologo, inizialmente utilizzò il termine “maschio alfa” nei suoi primi studi sugli scimpanzé, riferendosi all’individuo che aveva “maggiore accesso alle risorse” e veniva “rispettato come leader del gruppo”.
Tuttavia, già dagli anni ‘80 e ‘90, il concetto iniziò a essere associato principalmente con “forza fisica, potere e aggressione”, creando l’immagine mediatica di un uomo temuto che usa intimidazione e astuzia per acquisire risorse e successo.
Quando gli scienziati ammettono l’errore
Il primo a riconoscere l’errore fu proprio David Mech, che dopo decenni di studi sul campo realizzò di aver frainteso completamente la natura dei branchi di lupi. “Quando scrissi il mio libro nel 1970, tutto quello che sapevamo derivava da osservazioni di lupi non imparentati tra loro, ma confinati insieme”, spiegò Mech. “In quell’ambiente artificiale, dove i lupi non erano parenti, aveva senso che ci fossero lotte di potere e che gli individui di rango più alto fossero etichettati come alfa”.
Grazie ai primi studi sul campo con radiocollari, che permettevano di seguire i lupi selvatici individualmente, Mech si rese conto della realtà: “Capimmo che un branco è una famiglia”. Da questa prospettiva, parlare di “alfa” e “beta” perde ogni significato. “Che valore ci sarebbe nel chiamare un padre umano il maschio alfa?”, chiese retoricamente Mech. “È semplicemente il padre della famiglia. Ed è esattamente così che funziona con i lupi”.
Il rango non garantisce il successo riproduttivo
Anche nelle specie dove esiste una gerarchia di dominanza, il successo riproduttivo non segue necessariamente il rango sociale. Uno studio sui macachi giapponesi ha rivelato che “i maschi di alto rango non ottenevano un alto successo riproduttivo”, e che “le femmine in estro spesso rifiutavano le avances dei maschi di alto rango e sceglievano di accoppiarsi con maschi di rango inferiore”.
Nelle popolazioni di scimpanzé, benché i maschi alfa abbiano generalmente più successo riproduttivo, “i maschi di basso rango generavano più figli di quanto previsto” e lo facevano “accoppiandosi con femmine più giovani e meno desiderabili e impegnandosi più spesso in consorterie rispetto ai padri di alto rango”.
La leadership contro la dominanza aggressiva
Quando esistono veri “leader” nel regno animale, raramente corrispondono all’stereotipo del dominatore aggressivo. La ricerca moderna distingue tra due percorsi verso lo status sociale: dominanza e prestigio.
La dominanza si esercita attraverso “intimidazione, minacce e coercizione” ed è caratterizzata da “aspetti di arroganza, presunzione, comportamenti antisociali e relazioni instabili”. Il prestigio, al contrario, è caratterizzato da “capacità di mediazione e cooperazione” e da “livelli più bassi di aggressione e livelli più alti di autentica autostima, accettazione sociale, piacevolezza e abilità di mediazione”. Gli individui prestigiosi “proteggono i più deboli del gruppo, interrompono le risse e i conflitti, hanno alti livelli di empatia e cura degli altri”. La ricerca in psicologia sociale dimostra che la leadership basata sul prestigio supera sempre quella basata sulla dominanza.
Maschio Alfa e attrattività: cosa cercano realmente le donne
In questo contesto si inserisce l’attrattività sessuale. Contrariamente al mito popolare, gli studi dimostrano che le donne non sono attratte dai cosiddetti “maschi alfa” aggressivi: uno studio di Burger e Cosby del 1999 rivelò che “nessuna donna indicava un uomo esigente e aggressivo come attraente”.
Gli aggettivi più associati all’attrattiva erano invece “sicuro di sé, assertivo, tranquillo e sensibile”, un uomo che presenti “bassi livelli di aggressione” e che non sia “esigente o dominante”.
Peter Kappeler sottolinea che i risultati della nuova ricerca condotta da Elise Huchard dell’Università di Montpellier hanno implicazioni dirette per la comprensione della società umana: “L’insieme dei tratti umani li colloca più vicini alle specie che mostrano relazioni più sfumate”, spiega il sociobiologo del Centro Primati Tedesco di Gottinga. Per questo, “gli argomenti che presentano il patriarcato umano come un’eredità dei primati appaiono fuorvianti”.
Gli esseri umani, infatti, non mostrano le caratteristiche tipiche delle società dominate dai maschi: i maschi umani non hanno “armi naturali”, non sono sempre più grandi delle femmine, e i nostri modelli sessuali sono variegati. Siamo invece allineati con il 70% delle specie di primati che non mostrano una chiara distinzione nei bias sessuali.