Due stipendi ma nessun figlio, aumentano le famiglie Dink. Per i giovani la famiglia non conta più nulla?
- 22/01/2025
- Popolazione
C’era un tempo in cui la famiglia italiana tipo aveva due figli e uno stipendio, più raramente due. Ora, sono sempre di più le famiglie Dink, ovvero quelle che di stipendi ne hanno due e di figli nessuno.
La questione è cruciale per il futuro del Paese, la domanda atavica: non avere figli è solo una scelta egoistica o rivela qualcosa di più profondo?
Cosa significa famiglie Dink
Si parta dall’acronimo: Dink sta per Double Income No Kids, ovvero due stipendi, nessun figlio. L’origine anglosassone del termine rivela che non si tratta di un trend solo italiano. Secondo il Current Population Survey, nel 2022, il 40% delle coppie americane sposate e senza figli aveva due stipendi. Considerando la fascia di età 35-44 anni (già al limite per la fertilità), nel 2021 le famiglie americane tra i 35-44 di età senza figli erano il 44%, contro il 37% del 2018.
Un sondaggio condotto da YouGov sulla stessa fascia di età rivela che, in Inghilterra e in Galles, nel 2020, il 51% dei 35-44enni non aveva figli, né programmava di averne.
La situazione in Europa
Una situazione analoga si ritrova anche in Europa, dove l’Italia detiene la maglia nera della denatalità. Come rivelato da un’indagine Eurostat, nel 2022, solo una famiglia europea su quattro aveva bambini. (24,3% delle quasi 200 milioni di famiglie totali). Più nel dettaglio:
– Famiglie con 1 figlio: 12,1%;
– Famiglie con 2 figli: 9,3%;
– Famiglie con 3 o più figli: 3%
Tra le famiglie con figli, praticamente la metà delle famiglie ne aveva 1 (49,5%), mentre il 38,1% aveva 2 figli e il 12,4% ne aveva 3 o più.
Una situazione diffusa in maniera uniforme, dato che, tra le famiglie con bambini, quelle con un solo figlio erano più comuni in 26 dei 27 Paesi membri. Unica eccezione i Paesi Bassi, dove le famiglie più frequenti erano quelle con 2 figli.
Più della metà delle famiglie con bambini aveva un figlio in Portogallo, Bulgaria, Romania, Malta, Lituania, Lettonia, Italia, Spagna e Ungheria.
Le quote più elevate di famiglie con bambini sono state registrate in Slovacchia (33,9%), Irlanda (32,2%) e Cipro (30,6%), mentre le quote più basse sono state registrate in Finlandia (18,4%), Germania (20,1%) e Paesi Bassi (21,8%).
La situazione in Italia
In Italia, nel 2023 sono nati 392.598 bambini rispetto ai 393.310 nati del 2022 (dati Istat). Un calo leggero ma costante da ormai un decennio che consolida la crisi demografica del Paese. In pratica, ogni mille residenti sono nati sei bambini. I dati provvisori relativi al primo semestre 2024 confermano il trend: 4.600 nati in meno rispetto allo stesso periodo del 2023 e tasso di fertilità sceso a 1,21 contro l’1,24 del 2022. Numeri ben lontani dalla cosiddetta soglia di sostituzione, pari a 2,1 figli per donna. Uno degli aspetti più critici del calo demografico riguarda la difficoltà, per molte coppie, di avere un secondo figlio. Il tasso di fecondità di 1,20 figli per donna evidenzia come molte famiglie si fermino al primo figlio, e questo fenomeno non accenna a diminuire. Nel 2023, i secondi figli sono diminuiti del 4,5%, e quelli di ordine successivo sono scesi dell’1,7%.
Come il lavoro influisce sulla crisi demografica
Tra le ragioni di questo stallo c’è l’allungarsi dei tempi per raggiungere una stabilità economica, un lavoro sicuro e un’abitazione adeguata, fattori che spesso portano le coppie a rinviare o addirittura a rinunciare a un ulteriore figlio.
Già oggi, l’Italia perde 150.000 posti di lavoro soprattutto a causa della crisi demografica. Trovare la causa di questa denatalità è difficile, ma necessario, per evitare che l’effetto domino si allarghi. Un primo punto è capire che non esiste una “causa” della denatalità, ma tante “cause” che si influenzano a vicenda. Tra queste, il lavoro è la principale.
I salari bassi
Il lavoro influenza la scelta di avere figli in due modi: i salari e il work-life balance.
Sotto il primo profilo, si noti che l’Italia è l’unico Paese dell’area Ocse con i salari reali fermi al secolo scorso. Come evidenziato dall’Inapp (rapporto di dicembre 2023), tra il 1991 e il 2022 i salari reali nel Belpaese sono rimasti cresciuti dell’1% a fronte del 32,5% in media registrato nell’area Ocse. La forte ondata inflattiva seguita agli incentivi durante la pandemia e alla guerra in Ucraina ha peggiorato la situazione. Nel 2023 gli italiani hanno speso 8.755 euro per le cosiddette spese obbligate su un totale di circa 21mila euro pro capite di consumi. Nel frattempo, gli stipendi sono rimasti al palo. Uno studio condotto dall’Istituto Sindacale Europeo (ETUI) ha evidenziato la correlazione tra bassi salari e carenza di manodopera in Europa. L’analisi (pubblicata nel 2023) ha coinvolto 22 dei 27 Paesi europei rivelando che i settori con maggiori difficoltà nel reclutamento offrono retribuzioni inferiori del 9% rispetto a quelli meno colpiti dalla carenza di personale.
Alla base dei salari bassi c’è anche un problema di produttività, ma alla base di questa scarsa produttività c’è anche l’invecchiamento della popolazione. Dalla seconda metà degli anni Novanta la crescita della produttività è stata di gran lunga inferiore rispetto ai Paesi del G7, con un gap del 25,5% nel 2021.
Il rapporto Inapp evidenzia l’effetto domino della crisi demografica. Mentre nel 2002 ogni 1.000 persone con età compresa tra 19 e 39 anni ce n’erano poco più di 900 nella fascia 40-64 anni, nel 2023 quest’ultimo valore ha superato le 1.400 unità: 1.900 lavoratori adulti-anziani ogni 1.000 lavoratori di 19-39 anni.
Scarsa produttività e scarsa remunerazione del lavoro vivono in osmosi: salari troppo bassi non stimolano i lavoratori e la scarsa produttività ostacola l’aumento salariale. Una dinamica lineare, così come è intuitivo il fatto che se aumenta l’età media dei lavoratori, diminuisce necessariamente la produttività.
L’allarme era scattato già con i dati relativi a novembre 2023, quando l’Istat aveva certificato il record occupazionale, poi superato a dicembre: 23 milioni e 743 mila lavoratori, tra permanenti e a termine. Nota negativa: dei 520 mila occupati in più registrati a novembre 2023 rispetto a novembre 2022, ben 477 mila erano over 50.
Il work life balance e la discriminazione di genere
Nella società moderna i ritmi produttivi sono più elevati del passato e, soprattutto a causa di un importante gap tecnologico, i lavoratori italiani devono sudare più dei coetanei europei per raggiungere lo stesso output. Inoltre, sono ancora poche le aziende italiane che danno spazio al work-life balance. A parte qualche media o grande impresa, concedere maggiore elasticità ai lavoratori è ancora visto come un ostacolo al profitto aziendale. Non a caso, L’Italia è quart’ultima in Europa per equilibrio tra vita privata e lavoro (analisi European Life-Work Balance Index di Remote).
Cosa significa questo? Che molte donne sono costrette a scegliere tra famiglia e lavoro. E in una società sempre più competitiva e incerta, sempre più donne scelgono il lavoro. Una situazione analoga si registra in Giappone e in Corea del Sud dove gli individui vengono inseriti in un contesto estremamente competitivo sin dai primi anni di età. Il governo di Tokyo ha inserito la settimana corta per i dipendenti pubblici con l’obiettivo di rilanciare la natalità, anche se gli effetti, nella migliore delle ipotesi, non saranno visibili a breve termine.
Tornando all’Italia i dati sono eloquenti. A due anni dal congedo di maternità una lavoratrice guadagna dal 10% al 35% in meno di quanto avrebbe guadagnato se non avesse avuto figli. Tra le lavoratrici intervistate molte dichiarano di voler lasciare il lavoro e di queste l’80,8% ha un impiego full time e il 19,2% part time come emerso dall’indagine ‘Non sostenibilità del lavoro femminile in Italia’ del Centro Studi Nodus pubblicata nel 2023. Nello stesso anno, la relazione annuale sulle convalide delle dimissioni delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri, presentate entro i primi tre anni dalla nascita dei figli, ha dimostrato quanto sia difficile essere una madre lavoratrice in Italia: il 72,8% delle dimissioni convalidate riguardava le neomamme. Tenere insieme i due impegni, è una fatica per il 63% delle mamme lavoratrici contro il del 7,1% dei papà che hanno dato la stessa motivazione come causa delle dimissioni.
Anche gli uomini ne sono sempre più consapevoli e chiedono di avere più tempo per i propri figli. Ancora oggi, per i neopapà il congedo obbligatorio è di appena dieci giorni, segno incontrovertibile di un’arretratezza che è sì economica, ma anche culturale. Per questo, il presidente dell’Inps Gabriele Fava ha proposto di innalzare dal 30% all’80% della retribuzione l’indennità per il terzo mese di congedo parentale, ma solo per i papà. L’attuale disciplina del congedo parentale concede a ciascun genitore dipendente la possibilità di prendersi fino a dieci mesi di congedo retribuito (con l’indennità all’80% limitata a una mensilità), da fruire nei primi 12 anni di vita del figlio.
Tuttavia, nonostante le disposizioni legislative che incentivano l’uso condiviso del congedo, sono soprattutto le madri a richiedere il congedo e a usufruirne per periodi più estesi. Una circostanza che cozza persino con l’obiettivo del congedo parentale, come ha spiegato il direttore centrale Studi e Ricerche dell’Inps Gianfranco Santoro: “Se il fine del congedo parentale è quello di favorire l’occupazione femminile, lo si riservi al padre”.
La paura per il futuro
Quando si parla di famiglie Dink si parla di coppie che hanno scelto di non avere figli nonostante l’agiatezza economica. Anzi, proprio per non abbassare il proprio tenore di vita fatto di cene fuori, vacanze e vari sfizi nella vita di tutti i giorni.
C’è anche un fattore culturale dietro questo fenomeno, una narrazione che ha progressivamente tolto importanza alla famiglia per spostarla sulla carriera. Una società più individualista fa meno figli, a prescindere dal reddito.
Sul piano culturale non è tutto.
Molti giovani decidono di non avere figli perché hanno paura di lasciarli in un mondo pieno di insidie, a partire da quelle ambientali. Per loro l’atto davvero egoistico sarebbe quello di mettere al mondo degli individui senza poterli proteggere da un cambiamento che è troppo più veloce di qualsiasi essere umano. L’l’indagine promossa da Merck ‘Salute emotiva della Generazione Zeta e dei Millenials: cosa muove i giovani europei?’ (2023) ha rivelato che il 76% dei giovani intervistati (7.500 in tutto) vuole avere figli ma in una società completamente diversa da quella attuale. L’indagine ha coinvolto cittadini europei di 19-26 anni (Generazione Zeta) e 26-36 anni (Millenials). La percentuale rilevata in Italia sulla possibilità di diventare genitore è di 5 punti superiore rispetto alla media del campione, pari al 71%.
All’orizzonte però non si vedono grossi miglioramenti né sotto il profilo retributivo, né sotto il profilo ambientale. Intanto, le famiglie Dink aumentano, perché per avere i figli non basta avere i soldi.