L’immigrazione tiene a galla la demografia trentina: quasi 11mila nati in 10 anni
- 13/03/2024
- Popolazione
Più di 1.000 nascite all’anno per 10 anni: questo è l’apporto che l’immigrazione sta dando alla demografia del Trentino Alto-Adige. Quasi 11mila nati che corrispondono a circa un quarto del totale delle nascite nella regione, nonostante la popolazione degli immigrati sia molto inferiore.
Una proporzione che evidenzia il diverso tasso di fecondità tra la popolazione autoctona e quella extra comunitaria: le madri extra-Ue hanno rappresentato in media il 24% del totale del totale, un quarto di tutte le donne che hanno partorito nella Regione in questo lasso di tempo. Un dato rilevante se si considera che gli stranieri extracomunitari sono l’8% della popolazione trentina. In pratica è come se, al netto di qualsiasi differenza anagrafica e di genere, gli immigrati avessero registrato un tasso di fecondità tre volte superiore a quello locale.
Come è cambiata la demografia
L’immigrazione ha permesso alla demografia del trentino di seguire un trend diverso rispetto a quello nazionale. Eppure, non mancano i campanelli d’allarme.
“Possiamo dire generalmente che la natalità in Italia è in calo dagli anni ‘70, ma in Trentino si era osservata una dinamica diversa – spiega la demografa Agnese Vitali, professoressa associata al dipartimento di Sociologia di Unitn come riporta Ilquotidiano.it – dalla fine degli anni ‘90 e fino al 2010 il trend si era invertito, e le nascite avevano ricominciato ad aumentare”.
Un’inversione generata anche dall’immigrazione: “Sicuramente il quel periodo il Trentino era un luogo molto attrattivo che accoglieva nuovi nuclei famigliari. Più in generale la prima decade del terzo millennio vedeva questa crescita interessante in Trentino” aggiunge Vitali che però spiega: “questa crescita è culminata e terminata nel 2010”.
Qui si pone la questione: perché a un certo punto l’apporto demografico degli immigrati è iniziato a calare?
La risposta non può essere univoca, ma emergono tre trend cruciali e decisivi:
- La crisi finanziaria e la precarizzazione della vita;
- l’effetto struttura della natalità;
- il cambiamento di abitudini da parte della popolazione immigrata.
La crisi finanziaria e la precarizzazione della vita
Negli ultimi anni il reddito disponibile delle famiglie italiane ha subito diverse variazioni. Secondo i dati Istat, il reddito disponibile reale delle famiglie italiane ha risentito dell’aumento dell’inflazione nel 2022, che ha ridotto il valore dei redditi percepiti dalle persone. In particolare, la retribuzione di fatto media reale per unità di lavoro equivalente (Ula) è diminuita.
Nel 2023, si è registrato un calo dell’inflazione, trainato dal forte rallentamento dei prezzi dei beni energetici, che sono scesi da un tasso del 64,7% a fine 2022 a 0,7% in luglio, diventando negativi in ottobre e novembre.
Tuttavia, nonostante il miglioramento nei livelli di reddito, circa un milione di famiglie hanno sperimentato una riduzione o un annullamento del Reddito di Cittadinanza rispetto al 2022, con una perdita media di 1.663 euro annui, influenzando principalmente le famiglie più povere.
Inoltre, alcune famiglie hanno sperimentato un peggioramento dei redditi rispetto al 2022 a causa della riduzione delle compensazioni temporanee per l’assegno unico e della cessazione di altre misure di sostegno. Nonostante ciò, l’esonero parziale dei contributi previdenziali in vigore nel 2023 ha comportato un miglioramento dei redditi disponibili per circa 11 milioni di famiglie.
A livello internazionale, nel secondo trimestre del 2023, il reddito reale delle famiglie nell’area OCSE è aumentato, ma in Italia è diminuito dello 0,3%, segnando una contrazione rispetto al trimestre precedente, già negativo rispetto agli anni passati.
Quindi, il potere d’acquisto degli italiani, considerando il reddito disponibile delle famiglie, ha subito un calo nel 2022 a causa dell’inflazione elevata, con un leggero miglioramento nel 2023 grazie alla riduzione dell’inflazione e a misure di sostegno, ma con alcune famiglie che hanno comunque sperimentato una diminuzione del reddito disponibile.
A questo va aggiunto la maggiore flessibilità del mondo del lavoro, agevolata in entrata e in uscita dal 2016 con il Jobs Act del governo Renzi. Un decreto che, con la cancellazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ha cambiato gradualmente la velocità con cui si cambia lavoro. Nonostante la flessibilità sia agevolata anche in entrata, è indubbio che questo scenario offra meno certezze sul futuro soprattutto per le famiglie con figli e sia parte integrante di un nuovo modo di concepire il mercato del lavoro stesso.
L’effetto struttura
Il secondo criterio per leggere il trend demografico è quello dell’effetto struttura: “Sicuramente – spiega ancora la professoressa Vitali – il calo della natalità risponde a una dinamica complessa in cui hanno giocato un ruolo la crisi finanziaria e la precarizzazione della vita, ma c’è anche un altro fattore da considerare. L’Italia ha avuto il suo picco di natalità con la generazione dei baby boomer, ma poi quella generazione ha fatto meno figli rispetto a quanti erano loro. Quindi se si guarda alla popolazione fertile di oggi è più piccola di quella degli anni ‘60. Non è solo che si fanno meno figli, ma anche che ci sono meno potenziali madri e potenziali padri”.
I dati corroborano questa affermazione. Infatti, anche se solo negli ultimi anni si ripone più attenzione sulla denatalità, la bassa fecondità è uno dei tratti distintivi dell’evoluzione demografica del nostro Paese: dalla metà degli anni Settanta il tasso di fecondità è sceso sotto i 2,1 figli per donna in età fertile, valore che sancisce un teorico equilibrio nel ricambio generazionale (tasso di sostituzione). Il calo è stato costante, fino al minimo storico di 1,19 figli per donna nel 1995.
Nonostante quest’ultimo dato dimostri una fecondità più bassa di quella attuale, spesso la crisi demografica attuale viene imputata semplicemente ai giovani che non vogliono fare figli. Ma, se il numero medio di figli per donna è più alto oggi che nel 1995, appare discordante cercare negli ultimi mesi e nelle scelte dei giovani la principale causa della crisi demografica.
Come rileva l’Istat, infatti, il vero nodo è il cosiddetto effetto struttura: a incidere pesantemente sul numero delle nascite è la diminuzione delle donne in età fertile, non le scelte delle stesse. L’effetto struttura, spiega l’istituto, è responsabile per l’80% del calo complessivo di circa 27 mila nascite effettivamente osservato tra il 2019 e il 2022, solo il restante 20% si deve alla minore fecondità registrata negli ultimi anni (da 1,27 figli in media per donna del 2019 a 1,24 del 2022).
In pratica, se nel 2022 le donne avessero avuto la stessa fecondità osservata nel 2019, si sarebbe avuto comunque un calo di circa 22 mila nati per il solo effetto della minore numerosità e della composizione anagrafica delle donne. Dunque, le radici dell’inverno demografico italiano affondano nella seconda metà degli anni Novanta quando si è passati dal baby boom del 1964 con oltre un milione di nascite alle 526 mila nascite del 1995.
Un cambio culturale
Con l’aggravarsi della crisi demografica, si è sviluppata in Italia una maggiore consapevolezza sul ruolo dell’immigrazione. I dati ufficiali dimostrano che se il welfare non è ancora vicino al collasso e può ancora essere salvato, molto lo si deve all’apporto demografico degli immigrati, che storicamente fanno più figli degli italiani. Anche questo trend, però, ha subito un pesante rallentamento.
Nel 2006 la fecondità delle donne straniere era di 2,79 figli per donna, mentre ora è scesa a 1,87 figli per donna, tanto che la ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità Eugenia Roccella ha dichiarato a settembre scorso: “Non possiamo sostituire la nostra natalità con la presunta immigrazione ma dobbiamo renderci conto che anche gli immigrati che vivono in Italia acquistano le nostre abitudini, cioè smettono di fare figli”.
Il caso demografico del Trentino riflette in piccolo entrambe le tendenze che gravano sul Paese: la maggiore instabilità reddituale e il cambio culturale. La stessa demografa Vitali osserva: “Forse prima pesavano gli incentivi presenti in Provincia, ma ci sono anche oggi e non fanno la differenza”.
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