Arriva Natale, ma come è cambiato il concetto di natalità nel corso della storia?
- 22/12/2023
- Popolazione
A Natale, si sa, si festeggia la natalità più importante per la religione cristiana (ortodossi russi a parte): quella, appunto, di Gesù Cristo. Da allora, però, il concetto di natalità ha attraversato numerosi cambiamenti, fino ad arrivare ai giorni nostri, dove, secondo alcuni, in Occidente sarebbe maturata una cultura contraria alla natalità e alla famiglia.
Prima di intraprendere questo viaggio attraverso il tempo, ripassiamo i concetti base della demografia. La natalità è il numero di nascite che avvengono in territorio in un determinato periodo di tempo. Un altro modo per esprimerlo è il tasso di fecondità che indica, in media, quati figli nascono per ciascuna donna in quella popolazione.
Il concetto di natalità è strettamente legato a quello di mortalità, che è il numero di decessi che avvengono in una popolazione in un determinato periodo di tempo ed è legato anche all’aspettativa di vita che è in costante crescita. La differenza tra natalità e mortalità determina il tasso di crescita della popolazione, che è la variazione percentuale della popolazione in un determinato periodo di tempo.
La transizione demografica
Nella storia dell’umanità, il concetto di natalità è cambiato in relazione ai cambiamenti economici, sociali e culturali che hanno interessato le diverse società. Un modello utile per descrivere questa evoluzione è quello della transizione demografica, che evidenzia l’andamento nel tempo di natalità e mortalità rispetto alla popolazione.
Per “transizione demografica” si intende il passaggio dal regime demografico antico, in cui la natalità e la mortalità erano entrambe molto elevate, al regime demografico moderno, in cui la natalità e la mortalità sono di nuovo molto simili tra loro ma entrambe molto basse. Questo passaggio si è verificato in modo diverso e in tempi diversi nelle varie regioni del mondo, a seconda dello sviluppo economico, tecnologico, sanitario e culturale.
Il regime demografico antico
Il regime demografico antico si caratterizza per una situazione di “demografia naturale”, in cui la natalità e la mortalità si verificano secondo le leggi della natura, senza alcun controllo da parte dei singoli e della collettività. In questa fase, la fame, le carestie, le epidemie, le guerre falcidiano l’umanità. Nascite e morti si compensano tra loro e la popolazione non cresce. Si stima che fino all’8000 a.C. la popolazione mondiale fosse di circa 5 milioni di persone.
Nel regime demografico antico, il tasso di natalità e il tasso di mortalità sono entrambi molto elevati, a causa delle condizioni di vita precarie, delle malattie, delle guerre e della mancanza di controllo delle nascite. La popolazione non cresce molto e ha una struttura per età a piramide, con molti giovani e pochi anziani. Secondo i dati delle Nazioni Unite, il tasso di natalità medio per il mondo intero nel periodo 1950-1955 era di 36,9 nascite ogni 1.000 abitanti, mentre il tasso di mortalità era di 19,1 decessi ogni 1.000 abitanti. Il tasso di crescita della popolazione, quindi, è molto sostenuto.
La seconda fase della transizione demografica
Quando avvengono i primi progressi in campo agricolo, industriale, tecnologico e soprattutto medico-sanitario, come è successo in Europa a partire dalla fine del XVIII secolo, la mortalità comincia a diminuire. In questa fase, la natalità resta su livelli elevati quindi la popolazione cresce rapidamente. Si stima che nel 1800 la popolazione mondiale fosse di circa 1 miliardo di persone.
È proprio l’avanzamento in questi campi, che migliorano le condizioni e la speranza di vita, a determinare il calo del tasso di mortalità. Al tempo stesso, in questa fase, il tasso di natalità resta elevato, perché non si registrano grossi cambiamenti a livello culturale. La popolazione cresce rapidamente e ha una struttura per età a campana, con molti giovani e una maggiore presenza di anziani. Secondo i dati delle Nazioni Unite, il tasso di natalità medio per il mondo intero nel periodo 1970-1975 era di 33,4 nascite ogni 1.000 abitanti, mentre il tasso di mortalità era di 12,6 decessi ogni 1.000 abitanti. In pratica, anche se con un tasso di fecondità minore, in questa seconda fase la popolazione aumenta a un ritmo maggiore di quella antica grazie al calo della mortalità.
La terza fase della transizione demografica
Mano a mano che le migliori condizioni di vita si estendono a strati più estesi della popolazione, e gli individui si sentono rassicurati sulla propria capacità di sopravvivenza e su quella dei propri figli, aumenta anche l’investimento in capitale umano e il livello di scolarizzazione e ciò porta con sé cambiamenti importanti nei modelli ideologici e culturali, in particolare per ciò che riguarda il ruolo della donna, i rapporti di coppia, il valore attribuito ai figli.
Nonostante le migliori condizioni economiche, il tasso di fecondità diminuisce e, per la prima volta, i figli vengono considerati anche un costo. Si iniziano ad usare metodi contraccettivi.
In questa fase, la natalità comincia a diminuire e la popolazione continua a crescere ma a un ritmo inferiore. Si stima che nel 1950 la popolazione mondiale fosse di circa 2,5 miliardi di persone.
Il tasso di mortalità continua a diminuire, grazie al miglioramento della qualità della vita e della sanità. La popolazione cresce lentamente e ha una struttura per età a cilindro, con una minore presenza di giovani e una maggiore presenza di anziani. Secondo i dati delle Nazioni Unite, il tasso di natalità medio per il mondo intero nel periodo 2005-2010 era di 20,3 nascite ogni 1.000 abitanti, mentre il tasso di mortalità era di 8,6 decessi ogni 1.000 abitanti.
La quarta fase e la crisi demografica
Quando la natalità e la mortalità raggiungono livelli molto bassi, si entra nella quarta fase della transizione demografica, in cui la popolazione tende a stabilizzarsi o, nelle zone più sviluppate del pianeta, a diminuire. In questa fase, la popolazione è invecchiata, le famiglie sono più ristretta, la donna è più emancipata e la fecondità è controllata. In alcuni Stati, si passa addirittura a vietare un’eccessiva riproduzione. Il caso più eclatante è la “politica del figlio unico” sancita dalla Cina nel 1979 con lo scopo di ridurre il tasso di natalità del paese e rallentare il tasso di crescita della popolazione.
Si stima che la contestatissima legge abbia evitato circa 400 milioni di nascite e alle coppie che violavano la norma venivano applicate una serie di sanzioni, dalle ammende pecuniarie, alla perdita di posti di lavoro, fino agli aborti forzati anche in avanzato stato di gravidanza
Tuttavia, la preoccupazione per l’invecchiamento della società e la conseguente riduzione della forza lavoro ha portato a premere per il cambiamento e nel 2016 Xi Jinping ha deciso di porre fine alla decennale politica del figlio unico permettendo a tutte le coppie di avere due bambini, limite che dal 2021 è stato portato a tre figli.
Sempre a Oriente, anche la Corea del Nord ha applicato programmi di controllo negli anni ’70 e ’80 per rallentare la crescita della popolazione nel Dopoguerra. A differenza della Cina, però, qui la denatalità non ha ancora assunto i contorni della crisi demografica nonostante la richiesta disperata di Kim Jong-un di fare più figli per sostenere il paese.
La quarta fase riguarda soprattutto le zone più sviluppate, mentre in molti paesi in via di sviluppo la transizione demografica è ancora in corso o non è ancora iniziata.
Nelle aree che sono entrate in questa fase, la popolazione tende a diminuire o a stabilizzarsi e ha una struttura per età a fungo, con una scarsa presenza di giovani e una forte presenza di anziani e tutti le relative conseguenze sul piano macroeconomico e di welfare.
Anche se in questa parte del mondo la crisi demografica diventa sempre più preoccupante, la popolazione mondiale continua a crescere. Secondo i dati delle Nazioni Unite, infatti, il tasso di natalità medio per il mondo intero nel periodo 2020-2025 è stimato a 17,5 nascite ogni 1.000 abitanti, mentre il tasso di mortalità è stimato a 7,7 decessi ogni 1.000 abitanti.
La relatività della crisi
Le Nazioni Unite stimano che l’attuale popolazione di 8 miliardi continuerà a crescere fino a raggiungere i 10,4 miliardi di persone durante gli anni 2080. Tale livello resterà costante, secondo le previsioni, fino al 2100. La crescita maggiore si verificherà in Africa che attualmente ha una popolazione di 1,3 miliardi di persone e per il 2100 dovrebbe arrivare a 4,3 miliardi di persone.
Di rilievo anche i dati dell’Asia dove già vive oltre la metà della popolazione mondiale (4,7 miliardi di persone). Entro il 2050 la popolazione asiatica dovrebbe salire a 5,3 miliardi di persone per poi diminuire nella seconda metà del secolo e tornare nel 2100 al livello odierno. Entro la fine del secolo, dunque, più di 8 persone su 10 nel mondo vivranno in Asia o in Africa.
L’altro lato dalla medaglia è rappresentato dall’Occidente e, in particolare dall’Unione Europa dove, secondo le stime, entro il 2100 vivrà solo il 6% della popolazione mondiale con prospettive molto preoccupanti per Italia e Spagna, i paesi Ue dove la crisi demografica è più accentuata.
L’ultimo censimento Istat dimostra che nel 2022 l’Italia ha segnato un ulteriore decremento della popolazione residente che si attesta sotto i 59 milioni, con una riduzione di circa 33.000 unità rispetto all’inizio dell’anno (-0,6 per mille). Sebbene meno intenso rispetto al 2021 e al 2020, questo calo colpisce principalmente il Mezzogiorno, mentre il Nord registra un inaspettato aumento grazie a una dinamica migratoria (anche interna) favorevole.
Nel 2022 il Belpaese ha registrato un nuovo record di minimo per le nascite, con soli 393.000 nuovi nati, e un elevato numero di decessi, contribuendo a un saldo naturale negativo di circa 322.000 unità.
Il dibattito sulle cause della crisi demografica è molto acceso tra chi trova la principale cause nelle difficoltà economiche dei giovani e chi, come la Ministra per la Famiglia e le Pari Opportunità Eugenia Roccella, attribuisce maggiore peso specifico a motivazioni di tipo socio-culturale. Sul tema si è più volte espresso anche il presidente del Consiglio Giorgia Meloni secondo cui “in Occidente si è sviluppata una cultura contraria alla famiglia”.
Ferma restando la complessità del problema, resta l’urgenza di interrompere il pericoloso effetto domino in cui è caduta l’Italia, prima che la crisi diventi irreversibile.
Conclusioni
Il viaggio attraverso le varie fasi della transizione demografica dimostra che non c’è una relazione diretta tra natalità e situazione economica. Anzi, in alcune fasi storiche è sembrata esserci una relazione indiretta dove al crescere del benessere è diminuito il tasso di fecondità. Bisogna però evidenziare come gran parte dei fenomeni statistici segua un andamento sinusoidale per cui, dopo un picco, c’è un crollo. E la demografia non fa eccezione.
Per tanto, arrivati a un tasso di fecondità eccessivamente basso come quello italiano, fermo a 1,24 figli per donna contro il 2,1 del tasso di sostituzione demografica, il crollo non segue più una dinamica naturale, ma è indotto da cause esterne, siano esse la cultura o l’economia. O, più verosimilmente, entrambe.
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