In Italia l’ascensore sociale dell’istruzione è rotto
- 29/08/2023
- Giovani
Il figlio di un padre laureato ha oltre il doppio di possibilità di laurearsi rispetto al figlio di un diplomato e oltre il triplo delle possibilità rispetto al figlio di chi ha conseguito la terza media.
Questi sono i dati, impietosi, raccolti dall’Inapp nel Rapporto Plus 2022 sulla mobilità intergenerazionale rispetto al titolo di studio.
Più esattamente, nella fascia d’età 30-39 anni (la più giovane tra quelle considerate) la probabilità di laurearsi per il figlio di un laureato è del 61% contro il 30% del figlio di un diplomato, e il 18% di chi ha il padre con al massimo la licenza media.
Dunque, nonostante il livello medio di istruzione sia cresciuto negli ultimi cinquant’anni, lo svantaggio relativo per chi proviene da famiglie meno istruite non si è ridotto in maniera significativa.
L’Istituto spiega che le cause di questi numeri possono essere diverse:
- l’esperienza passata dei genitori, che in qualche modo “plasma” le scelte dei figli;
- le possibilità economiche della famiglia connessi agli insufficienti misure di sostegno per i giovani meno abbienti;
- l’inadeguatezza dei servizi di orientamento;
- la diffidenza sull’utilità del titolo nel mercato del lavoro
Su quest’ultimo punto si sottolinea come soprattutto le famiglie meno istruite non considerino la laurea come un elemento chiave per l’affermazione lavorativa, idea rafforzata dai dati Ocse che classificano l’istruzione italiana tra quelle con il più basso rendimento. A questo va aggiunto un dato macroscopico della nostra politica: l’Italia ha registrato una spesa pubblica per l’istruzione pari al 4,1% del Pil nel 2022, rispetto al 5,2% in Francia, al 4,6% in Spagna e al 4,5% in Germania (media Ue 27: 4,8%). A preoccupare è soprattutto la tendenza negativa confermata dalla serie storica degli ultimi decenni, con una costante diminuzione della spesa in istruzione negli ultimi vent’anni.
In questo scenario vanno considerate anche le grandi disuguaglianze territoriali Nord-Sud e grandi città-piccoli centri urbani.
“Una società giusta ed equa implica che sia l’impegno, e non le posizioni iniziali o il contesto famigliare, a determinare lo status socioeconomico dell’individuo. Il sistema educativo dovrebbe garantire a tutti i ragazzi e le ragazze l’opportunità di partecipare a processi di apprendimento efficaci, in grado di sviluppare le loro potenzialità e il loro talento separando così le loro prospettive da quelle della famiglia d’origine. E ciò può avvenire sviluppando non soltanto i percorsi universitari ma anche gli altri percorsi di formazione professionale fino al livello terziario e garantendo processi continui di aggiornamento delle competenze per soddisfare i bisogni emergenti dalle trasformazioni strutturali in atto” ha dichiarato il presidente dell’Inapp Sebastiano Fadda a Benevento nel corso dell’evento “Giovani verso il futuro. Formazione e lavoro nella società in trasformazione”, organizzato da Inapp in collaborazione con la Regione Campania e la Provincia di Benevento.
La demografia e l’istruzione
Negli ultimi cinquant’anni circa è chiaramente aumentato il livello di istruzione medio in Italia: i laureati sono il 14% degli attuali 50-64enni, contro il 28% nella fascia 30-39 anni. Tuttavia, l’aumento si registra solo in termini relativi e non assoluti perché la maggiore profondità degli studi viene bilanciata dal calo demografico che sta interessando l’Italia e più in generale i Paesi europei.
A ciò va aggiunto un altro elemento demografico, ovvero la “diaspora” dei giovani laureati italiani: l’ultimo rapporto Istat sulle migrazioni ha quantificato in circa un milione i connazionali espatriati tra il 2012 e il 2021, di cui un quarto con il titolo di laurea. In pratica, l’Italia perde ogni anno il 5-8% dei suoi giovani altamente formati.
Numeri e tendenze che spiegano la particolare crisi del lavoro attuale caratterizzata da un’alta offerta di lavoro, tanta domanda, ma poca conciliazione tra le competenze richieste dal mercato e quelle offerte dagli aspiranti lavoratori.
Urge quindi una rivisitazione del sistema di istruzione che sappia esaltare le competenze e formare quelle più richieste, così come serve intervenire pesantemente sugli stipendi dei laureati italiani che registrano un gap inaccettabile con gli altri Paesi europei.
L’ultimo rapporto AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei laureati parla chiaro. L’edizione 2022, che ha quantificato al 3,2% dei laureati di secondo livello quelli che lavorano fuori dai confini nazionali, individua nelle migliori opportunità offerte all’estero, “soprattutto in termini di retribuzioni e prospettive di carriera”, gli obiettivi per espatriare. Considerazioni confermate dal fatto che, a un anno dalla laurea, il lavoro autonomo viene scelto dal 13% dei laureati rimasti in Italia e da appena il 4,6% di quelli emigrati. Inoltre, all’estero risultato più diffusi i contratti a tempo indeterminato, ma è soprattutto lo stipendio a fare la differenza. Complessivamente, i laureati di secondo livello trasferitisi all’estero percepiscono, a un anno dal titolo, 1.963 euro mensili netti, +41,8% rispetto ai 1.384 euro che incasserebbero in Italia. Ad aggravare la situazione, il fatto che più passa il tempo più la forbice si allarga, tanto che a cinque anni dalla laurea all’estero vengono incassati in media 2.352 euro, contro il 1.599 euro medi in Italia: stipendi distanti anni luce con un gap del 47,1%!
Dunque, alla politica si chiede di intervenire sull’istruzione, prima di tutto investendo più denaro contrariamente a quanto fatto negli ultimi anni, ma questo non può bastare. Con la prospettiva di un futuro incerto e di uno stipendio molto vicino a quello di chi non ottiene la laurea, sarà difficile invertire il trend e far riprendere a funzionare l’ascensore sociale sul titolo di studio. Ascensore che in Italia è sospeso tra il passato di chi non ha studiato e la paura dei figli che non ne valga la pena.
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