Congedo di paternità, trend in crescita: chi sono i papà che possono permetterselo
C’era un tempo in cui il congedo di paternità in Italia era visto come una bizzarria. Prendersi dei giorni per stare con il proprio figlio appena nato? Un lusso o una stravaganza per pochi, si diceva, come se la genitorialità fosse un affare esclusivo delle madri. Eppure, qualcosa sta cambiando. Lentamente, certo, ma in modo inequivocabile. La sua diffusione è ancora un mosaico di differenze regionali, contrattuali ed economiche, con uno zoccolo duro di padri che ancora esitano a prendersi quei preziosi dieci giorni. Perché? E soprattutto, come convincerli che non si tratta solo di un benefit, ma di un tassello cruciale per l’equilibrio familiare e sociale?
Il congedo di paternità obbligatorio
Dieci giorni. Tanto dura il congedo di paternità obbligatorio in Italia. Potrebbero sembrare pochi, ma in realtà sono un’opportunità d’oro per i neopapà: un tempo prezioso per godersi l’arrivo di un figlio e, al tempo stesso, scardinare l’idea che la cura dei bambini sia ancora una “cosa da mamme”.
Questa misura, regolata dal d.lgs. 151/2001 (noto come “Testo unico sulla maternità e paternità”), permette ai padri lavoratori dipendenti – sia nel pubblico che nel privato – di assentarsi dal lavoro per prendersi cura del neonato (o del nuovo arrivato in caso di adozione o affidamento). Il periodo di fruizione è elastico: si può partire fino a due mesi prima del parto e concludere entro cinque mesi dalla nascita, anche nei casi purtroppo più dolorosi, come la morte perinatale del bambino.
Ma attenzione: il congedo obbligatorio non è un “bonus paternità” da incassare con leggerezza, né un’agevolazione da barattare con qualche straordinario in ufficio. Si tratta di un diritto sacrosanto, pensato per riequilibrare il peso delle responsabilità familiari e favorire un legame profondo tra padre e figlio fin dai primi giorni di vita. E per chi pensasse di fare il furbo, ecco la novità introdotta dal d.lgs. 105/2022: multe salate (da 516 a 2.582 euro) per quei datori di lavoro che ostacolano la fruizione di questo diritto.
Infine, per le famiglie mono-genitoriali, lo Stato ha previsto un ulteriore passo avanti: il diritto a un congedo esteso fino a 11 mesi nel caso in cui l’altro genitore sia deceduto, inabile o abbia rinunciato al riconoscimento del bambino.
Chi sono i padri che si prendono il congedo di paternità?
Dimenticatevi l’immagine del papà distratto, troppo impegnato con il lavoro per pensare ai pannolini. Oggi il congedo di paternità ha un suo identikit preciso: vive al Nord, ha un contratto a tempo indeterminato e un reddito tra i 28.000 e i 50.000 euro. A tracciarlo è l’Inps, che in collaborazione con Save the Children ha scattato una fotografia chiara di chi sceglie (e può permettersi) di stare accanto al proprio figlio nei primi giorni di vita. Ma dietro a questi numeri si nasconde una realtà ancora piena di squilibri.
Da una parte, il trend è in crescita: nel 2013 solo il 19,2% dei padri aventi diritto sfruttava questa opportunità, mentre nel 2023 siamo saliti al 64,5%. Tuttavia, oltre un terzo dei padri ancora non ne usufruisce. Il motivo? Una combinazione di fattori culturali, economici e organizzativi che rendono questa misura meno accessibile di quanto sembri.
L’Italia si conferma ancora una volta un paese spaccato a metà. Se nel Nord il 76% dei padri aventi diritto si prende il congedo, al Sud e nelle Isole la percentuale crolla al 44%. In cima alla classifica troviamo il Veneto (79%), il Friuli Venezia-Giulia (78%) e l’Emilia-Romagna (76,5%), mentre fanalino di coda è la Calabria con un misero 35,1%. Numeri che parlano chiaro: laddove il tessuto economico è più solido e le aziende più strutturate, i padri si sentono più sicuri nel prendersi una pausa dal lavoro. Al contrario, nelle regioni dove il mercato è più precario, la paura di perdere il posto o di subire ripercussioni è ancora forte.
La dimensione aziendale è un altro fattore chiave: nelle imprese con più di 100 dipendenti, il congedo viene utilizzato dall’80% dei padri, mentre nelle aziende sotto i 15 dipendenti la percentuale scende al 40%. Ecco un’altra barriera che rende il congedo di paternità un privilegio più che un diritto effettivo.
Quando il contratto fa la differenza
Oltre alla geografia, è il tipo di contratto a determinare la possibilità di sfruttare il congedo. Se il 70% dei padri con un contratto a tempo indeterminato ne usufruisce, la percentuale si dimezza per chi ha un contratto determinato (40%) e precipita al 20% per i lavoratori stagionali.
E non è solo una questione di sicurezza occupazionale: anche il reddito gioca un ruolo cruciale. Il tasso di utilizzo più alto si registra tra chi guadagna tra i 28.000 e i 50.000 euro l’anno (83%), mentre scende all’80% per chi supera i 50.000 euro e cala drasticamente al 66% tra chi ha un reddito tra i 15.000 e i 28.000 euro. La spiegazione? Il congedo di paternità è retribuito al 100%, ma per chi ha stipendi più bassi anche pochi giorni di mancati straordinari o bonus aziendali possono fare la differenza.
Un cambio culturale a rilento
Oltre agli ostacoli economici e strutturali, c’è un altro grande freno alla diffusione del congedo di paternità: la cultura del lavoro e della famiglia in Italia. Ancora oggi, il modello tradizionale che vede la madre come principale (se non unica) responsabile della cura dei figli è duro a morire.
Lo dimostra il fatto che in molte aziende, soprattutto le più piccole, il congedo di paternità viene ancora visto come un’eccezione piuttosto che una regola. Molti padri temono che prendersi dieci giorni di pausa possa essere interpretato come un segnale di scarso impegno lavorativo. Eppure, gli studi dimostrano il contrario: i padri che partecipano attivamente alla cura dei figli nei primi mesi di vita instaurano un legame più profondo e duraturo, con effetti positivi anche sulla produttività e il benessere lavorativo.
Il presidente dell’Inps, Gabriele Fava, ha sottolineato come “promuovere il congedo di paternità produce effetti concreti: favorisce un legame precoce tra padre e figlio e contribuisce a una distribuzione più equilibrata delle responsabilità familiari”. Una visione condivisa anche da Save the Children, che chiede un’estensione della misura per tutti i lavoratori, non solo i dipendenti, e una maggiore sensibilizzazione per abbattere gli stereotipi di genere.