Arresto cardiaco, in Italia i soccorsi ci mettono 13 minuti. Media europea pari a 12 minuti e 12 secondi
- 9 Luglio 2025
- Popolazione Welfare
13 minuti. Questo è il tempo che impiega mediamente un’ambulanza In Italia per soccorrere chi ha avuto un arresto cardiaco. In Europa la media scende a 12,2 minuti ovvero 12 minuti e 12 secondi. Una differenza di 48 secondi che sembra trascurabile, ma che può fare la differenza tra la vita e la morte perché quando il cuore si ferma, ogni secondo vale un’eternità.
I dati sono rivelati dalla EuReCa-Three, la terza grande fotografia europea sull’arresto cardiaco extra-ospedaliero coordinata dall’European Resuscitation Council e pubblicata sulla rivista Resuscitation. I ricercatori hanno analizzato oltre 50mila chiamate al numero di emergenza in 29 Paesi europei, misurando con precisione cronometrica il tempo che intercorre tra la richiesta d’aiuto e l’arrivo del primo mezzo di soccorso.
Come cambia la possibilità di sopravvivere a un arresto cardiaco
Per comprendere il peso di quella manciata di secondi in più, basta considerare che in caso di arresto cardiaco per ogni minuto che passa senza rianimazione, le probabilità di sopravvivenza calano di circa il 10%. È una corsa contro il tempo spietata: dopo appena 4-5 minuti senza ossigeno, il cervello inizia a subire danni irreversibili.
In Italia si verificano circa 60mila arresti cardiaci extra-ospedalieri ogni anno, mentre in tutta Europa il numero sale a 400mila casi. Dietro queste cifre si nascondono storie di persone che crollano improvvisamente per strada, nei centri commerciali, sui campi sportivi. Persone che potrebbero essere salvate se solo quell’ambulanza arrivasse qualche istante prima. I rischi aumentano con il caldo torrido soprattutto nelle grandi città: Milano è risultata la città con più morti per le ondate di calore in tutta Europa e anche Roma è nella non invidiabile top 5.
Come cambia la velocità del soccorso in Italia
Il sistema di soccorso italiano presenta luci e ombre che si intrecciano in un quadro complesso. Da una parte, la qualità dell’assistenza medica è riconosciuta a livello internazionale. Dall’altra, la geografia del nostro Paese e l’organizzazione frammentata del servizio 118 creano ostacoli che si traducono in ritardi potenzialmente letali.
Nelle aree interne, dove le strade serpentine si arrampicano tra colline e montagne, le ambulanze devono percorrere distanze maggiori su tracciati spesso tortuosi. Nelle grandi città, invece, il principale ostacolo è il traffico: anche a sirene spiegate, un mezzo di soccorso può rimanere intrappolato in una morsa di automobili durante le ore di punta.
La centrale operativa del 118, poi, varia da Regione a Regione. Le procedure di dispatch non sono sempre uniformi e in alcune province la carenza di personale specializzato rallenta ulteriormente i tempi di intervento. È come se l’Italia fosse un puzzle dove ogni tessera segue regole leggermente diverse.
Le eccellenze che indicano la strada
Non tutto è grigio nel panorama italiano. Il Progetto Vita di Piacenza rappresenta un esempio virtuoso che fa scuola in Europa: 877 defibrillatori integrati con la centrale 118 e una sopravvivenza del 41% quando la scarica elettrica viene erogata da personale non medico formato. Un risultato che dimostra come l’organizzazione e la formazione possano fare la differenza.
In molti Paesi del Nord Europa, le app di allerta per volontari hanno rivoluzionato il sistema: i first responder partono contemporaneamente all’ambulanza, accorciando di 2-3 minuti cruciali l’arrivo della prima rianimazione cardiopolmonare. Sono piccole innovazioni che, operando insieme, possono ribaltare le statistiche e salvare vite umane.
Come migliorare il soccorso in Italia
Colmare quel minuto di gap con l’Europa non è un’utopia, ma richiede una strategia coordinata. Serve mappare e registrare tutti i defibrillatori automatici in un’unica piattaforma nazionale con geolocalizzazione aggiornata in tempo reale. Serve una formazione capillare che coinvolga studenti, autisti di autobus, forze dell’ordine, dipendenti pubblici.
La tecnologia può dare una mano: la trasmissione video in tempo reale dalla scena dell’evento permetterebbe ai medici della centrale operativa di guidare i soccorritori sul posto. Nelle città, corsie preferenziali dedicate e semafori intelligenti che si aprono automaticamente al passaggio dell’ambulanza potrebbero abbattere i tempi di percorrenza.
In Italia, la formazione in rianimazione cardiopolmonare non è obbligatoria a scuola, a differenza di molti Paesi del Nord Europa. I defibrillatori pubblici, pur aumentando di numero, restano spesso percepiti come strumenti “medici” che solo i dottori possono utilizzare, nonostante la legge permetta l’uso da parte di chiunque abbia seguito un corso di formazione.
Questa mentalità si traduce in vite perse. Quando una persona crolla per arresto cardiaco, spesso ci sono testimoni sul posto che potrebbero iniziare immediatamente le manovre salvavita, guadagnando minuti preziosi in attesa dell’ambulanza. Ma se non sanno come agire, quei minuti scivolano via inesorabilmente.
Quei 13 minuti italiani contro i 12 minuti e 12 secondi della media europea raccontano una storia più ampia. Parlano di come una società si prende cura dei suoi membri più fragili, di quanto investe nella prevenzione e nella formazione, di come organizza i suoi servizi essenziali.
L’Italia è a un passo dall’Europa, precisamente a 48 secondi di distanza. Ma in medicina d’urgenza spesso è l’ultimo miglio a fare la differenza. Trasformare quel minuto in vita salvata è una sfida che riguarda istituzioni, medici e cittadini comuni. Una sfida che vale la pena di vincere, una vita alla volta.