Tokyo introduce la settimana corta per rilanciare la natalità
Il Giappone vuole introdurre la settimana lavorativa corta come risposta alla crisi demografica. Quello di Tokyo sarà un esempio prezioso per tutti quei Paesi, Italia in primis, che da tempo cercano una soluzione alle culle vuote senza trovare la chiave giusta. Stipendi troppo bassi, servizi all’infanzia carenti e uno scarso work-life balance sono tutte concause della crisi demografica. La sfida per gli Stati è trovare il canale preferenziale, quello su cui insistere con più determinazione per ripopolare le culle.
Tokyo ha scelto la sua strada: introdurrà la settimana lavorativa di 4 giorni per i dipendenti pubblici per incoraggiare le coppie giapponesi ad avere figli in un momento in cui il tasso di fertilità del Paese è ai minimi storici.
La crisi demografica in Giappone
L’anno scorso in Giappone ci sono state solo 727.277 nascite, il numero più basso di sempre. Mentre le case si svuotano, il governo nipponico cerca una soluzione partendo dal particolare contesto culturale del Paese.
I dati suggeriscono che una principali della denatalità può essere proprio la cultura della produttività a tutti i costi, che spesso porta i giapponesi a lavorare ben oltre le 40 ore a settimana. Questo è lo stesso Paese in cui è nato il fenomeno degli hikikomori, ragazze e ragazzi giovanissimi che si rinchiudono in casa soprattutto perché non si sentono all’altezza della società e delle sue richieste.
In Giappone, il divario di genere occupazionale è più alto che in altre nazioni ad alto reddito: nel 2023 ha lavorato il 55% delle donne contro il 72% per gli uomini (dati Banca Mondiale). Il controsenso è solo apparente. Molte donne giapponesi non lavorano perché i ritmi produttivi rendono impossibile conciliare il lavoro e la famiglia, generando un aut aut che non fa bene né all’economia, né alla natalità né tanto meno al senso di soddisfazione per la propria vita.
Relazione tra work-life balance e natalità
La difficoltà della materie non consente risposte tranchant, ma alcuni studi danno degli indizi interessanti.
L’Ocse ha condotto diverse ricerche significative sull’impatto delle politiche di work-life balance sul tasso di natalità e sulla qualità della vita delle famiglie. Ne è emerso che esiste una correlazione tra l’adozione di politiche di conciliazione vita-lavoro e l’aumento dei tassi di fertilità. I Paesi che garantiscono un accesso più equo al mercato del lavoro per entrambi i genitori, orari flessibili e politiche di supporto alla genitorialità tendono a registrare tassi di fertilità più alti rispetto a quelli che non implementano tali misure. Parliamo di Paesi del Nord Europa come Svezia e Norvegia, dove esistono sistemi consolidati di congedo parentale retribuito e ampi servizi di assistenza all’infanzia.
La ricerca Ocse sottolinea che la denatalità è influenzata da una combinazione di fattori: stress lavorativo, difficoltà economiche e la percezione di un’insufficiente supporto da parte delle istituzioni. Non a caso il Giappone dove i turni lavorativi sono molto lunghi e la cultura aziendale eccessivamente rigida, ha il tasso di fertilità più basso al mondo. La settimana lavorativa di 4 giorni, recentemente annunciata a Tokyo come misura pilota, è forse l’ultima carta a disposizione del governo.
Ma perché finora non si è andato in questa direzione?
La risposta è semplice: si teme che la settimana di 4 giorni porti a un calo della produttività. Questa paura accomuna tutti quei Paesi che non hanno ancora registrato grandi aperture verso la settimana corta. Tra questi rientra l’Italia, che però ha fatto un piccolo (e per ora solo formale) passo prevedendo la possibilità di adottare la settimana corta nel settore pubblico.
La settimana corta aumenta la produttività
Ma la settimana corta è davvero nemica della produttività? Uno studio comparativo sui Paesi Ocse evidenzia che la settimana corta non solo migliora la qualità della vita, ma persino la produttività complessiva. Alla base di questo (inatteso) risultato ci sarebbe la maggiore lucidità mentale dei lavoratori, come dimostra il più ampio studio sulla materia, pubblicato nel 2023 da 4 Day Week Global e dal centro studi britannico Autonomy.
I risultati hanno dimostrato che durante il periodo di prova le entrate delle aziende hanno registrato un incremento medio dell’1,4%. Analizzando il confronto tra il fatturato dei sei mesi di sperimentazione e un periodo equivalente con la settimana lavorativa di cinque giorni, gli autori dello studio hanno rilevato un aumento del fatturato medio pari al 35%. Questi risultati suggeriscono che la produttività non solo non è diminuita, ma ha beneficiato del cambiamento. Non a caso, 18 delle 61 aziende coinvolte nel test hanno subito adottato la settimana corta come scelta definitiva.
Dopo sei mesi, il 39% dei dipendenti intervistati ha riferito di sentirsi meno stressato, mentre il 71% ha segnalato una riduzione del livello di burnout, una forma di stress cronico particolarmente dannosa. Sono stati registrati miglioramenti in ansia, stanchezza e qualità del sonno, con un generale beneficio per la salute fisica e mentale. Le assenze dal lavoro sono diminuite del 65%, passando da una media di due giorni al mese a 0,7 giorni per dipendente. Il che, va da sé, aumenta la produttività aziendale e diminuisce la spesa pubblica.
Durante il periodo di prova, il numero di dipendenti che ha lasciato il proprio posto di lavoro si è ridotto del 57%. Il 15% degli intervistati ha dichiarato che accetterebbe persino una riduzione del salario pur di non tornare alla settimana lavorativa di cinque giorni.
Le riflessioni affrontate nell’indagine sono utili a tutti quei Paesi, come l’Italia, che presentano una grave crisi demografica. I dati sulla denatalità italiana dimostrano che le culle non si riempiono senza un cambiamento radicale. Intanto, il Paese perde 150.000 lavoratori all’anno per la crisi demografica e l’economia rischia di cadere sotto la scure di un minaccioso effetto domino.
Lo studio, che ha coinvolto 2.900 dipendenti tra giugno e dicembre 2022, ha registrato un impatto fortemente positivo sul loro work-life balance. Il 54% dei dipendenti ha affermato di aver gestito più facilmente gli impegni familiari e di cura, mentre il 62% ha migliorato il bilanciamento tra lavoro e vita sociale.
Molti lavoratori hanno espresso una maggiore soddisfazione nella gestione del tempo, delle finanze e di vivere meglio le relazioni personali. Che, giova ricordarlo, non sono mai un dettaglio quando si parla della scelta di avere o non avere figli.