Vivere senza sesso, uno su cento lo fa (anzi, non lo fa)
- 10 Ottobre 2025
- Popolazione
Basta un numero per incrinare molte certezze su relazioni, felicità e successo personale: uno su cento. È la quota – piccola ma costante – di adulti che dichiara di non aver mai avuto rapporti sessuali. No, non è una svista del questionario né un residuo vittoriano: è un dato solido, emerso da un’analisi di quasi 400 mila persone della Uk Biobank e 13.500 australiani, pubblicata su Pnas.
I risultati? Meno ovvi di quanto si pensi. Gli individui “sexless” sono più istruiti, meno inclini ai vizi, ma anche più soli e meno felici. Vivono più spesso in aree con squilibri tra i sessi o disuguaglianza di reddito e, negli uomini, compaiono differenze fisiche (forza della parte superiore del corpo) che i ricercatori citano con discrezione accademica. Anche il Dna ci mette lo zampino – ma solo un po’: le varianti genetiche spiegano una parte della variabilità individuale, senza trasformarsi in “destino biologico”. Insomma, non è una condanna evolutiva, ma un intreccio di fattori.
Più lauree, meno abbracci
Dietro quel singolare “uno su cento” non ci sono solo scelte intime, ma un insieme di condizioni sociali, culturali e psicologiche che si intrecciano. Nel campione britannico e in quello australiano, chi non ha mai avuto rapporti sessuali tende ad avere più anni di istruzione, meno comportamenti a rischio e una relazione più prudente con la socialità. Meno fumo, meno alcol, meno sostanze ricreative. Ma anche meno amici, meno incontri, meno fiducia negli altri.
Non è l’immagine caricaturale dell’adulto chiuso in casa: piuttosto, quella di una persona che partecipa poco alla vita sociale. I ricercatori lo chiamano “profilo di bassa integrazione relazionale”, e a livello statistico è associato a livelli più bassi di benessere soggettivo e soddisfazione di vita. In altre parole: si vive bene, ma non benissimo.
Negli ultimi anni, altri studi hanno mostrato la stessa tendenza in diversi Paesi: si parla ormai di “recessione sessuale”. L’intimità si è spostata di stanza – dal letto al divano – e il tempo libero tende a scorrere davanti a uno schermo. Non è solo questione di desiderio, ma di abitudini: più streaming, più solitudine digitale, meno relazioni reali. Un cambiamento che non riguarda solo i ventenni, ma anche adulti istruiti e urbanizzati, sempre più concentrati su lavoro e performance.
Gli uomini mostrano anche indicatori fisici differenti: minore forza della parte superiore del corpo, qualche segnale di salute peggiore, meno attività sportiva. Le donne, al contrario, appaiono più istruite e più autonome, con carriere e livelli di formazione spesso superiori alla media. È come se, per loro, la vita affettiva fosse meno condizionata dal partner e più dall’autorealizzazione personale.
Non mancano i paradossi. I “sexless” riportano meno stress da relazioni, meno conflitti e meno ansia sociale. Ma pagano un prezzo: più solitudine e meno reti di sostegno.
Gli autori dello studio insistono sul fatto che non si tratta di un fenomeno patologico, bensì di un’espressione di diversità sociale. Tuttavia, la solitudine non è solo una questione emotiva: ha costi sanitari e cognitivi. Studi paralleli mostrano che chi ha reti sociali fragili tende a dormire peggio, a muoversi meno e a percepire la propria vita come meno significativa.
Ecologia dell’accoppiamento
Il caso britannico e quello australiano confermano che anche il luogo in cui vivi influenza la tua vita sessuale. Gli uomini che abitano in aree con una minor percentuale di donne dichiarano più spesso di non aver mai avuto rapporti. Si tratta di matematica: se le proporzioni si sbilanciano, le opportunità calano.
La ricerca parla di ecologia dell’accoppiamento, un concetto che unisce demografia e comportamento. A influire non è solo il numero relativo di uomini e donne, ma anche la disuguaglianza economica. Le regioni con maggiore disparità di reddito presentano tassi più alti di “sexlessness” in entrambi i sessi. Il meccanismo è intuitivo: dove aumenta la polarizzazione sociale, cala la mobilità relazionale. Le persone tendono a frequentare cerchie più ristrette, e i “mercati dell’incontro” diventano meno permeabili.
Anche la geografia della solitudine segue linee economiche. Dove il costo della vita cresce e gli spazi condivisi scompaiono, le persone vivono più isolate — spesso per necessità, non per scelta. Nelle grandi città europee, l’aumento dei single è legato tanto ai redditi quanto alla struttura urbana: case più piccole, meno luoghi d’incontro, più tempo speso da soli. In questo contesto, il “vivere senza sesso” è anche un effetto collaterale di un modello abitativo e sociale sempre più individualizzato.
Il Dna c’entra (un po’)
Lo studio pubblicato su Pnas misura per la prima volta la quota di ereditarietà genetica dell’assenza di sesso. È una quota modesta ma reale: circa il 17% negli uomini e il 14% nelle donne, con una correlazione genetica di 0,56 tra i due sessi. Tradotto: una parte di questa caratteristica è scritta nei geni, ma la maggior parte dipende dall’ambiente.
Non esiste il “gene del celibato”, e nessuno potrà mai scoprire il proprio destino sentimentale in un test del Dna. Ciò che si intravede, semmai, è un intreccio complesso tra tratti di personalità, fattori cognitivi e variabili fisiche. Chi ha determinati profili genetici tende ad avere un’età più alta al primo rapporto, meno partner, minore propensione al rischio. È una mappa probabilistica.
Gli autori insistono su un punto: l’effetto genetico è diffuso e poligenico. Significa che migliaia di varianti influenzano minimamente il risultato, nessuna in modo decisivo.
Eppure, la parte affascinante sta altrove. Le stesse varianti associate alla “sexlessness” mostrano correlazioni con tratti cognitivi (QI leggermente superiore), ma anche con condizioni psicologiche come ansia e spettro autistico.
Questo non vuol dire che chi è più intelligente o introverso farà meno sesso, ma che ci sono tratti di personalità – attenzione ai dettagli, preferenza per la solitudine, rigidità sociale – che possono tradursi, in certi contesti, in minori opportunità relazionali. In altre parole, la genetica disegna il terreno, ma la società costruisce il campo da gioco.
Le molte facce del ‘sexless’
L’“uno su cento” non racconta un solo tipo di storia. Dentro ci sono asessuali convinti, persone che non hanno mai trovato un partner, altre che hanno scelto di rinunciare dopo esperienze negative o per motivi culturali.
Una parte, circa l’1% della popolazione generale, si identifica come asessuale: non prova attrazione né desiderio. Non è un problema medico, è una condizione identitaria. Altri, invece, dichiarano di aver semplicemente rinunciato alle relazioni intime: per timidezza, sfiducia, o – sempre più spesso – mancanza di tempo e spazi.
Nel dataset britannico, i “sexless” mostrano livelli più alti di solitudine cronica e minor senso di significato. Gli uomini, in particolare, risultano più esposti a forme di isolamento digitale e alla frequentazione di comunità online frustrate – i cosiddetti incel. Lo stesso isolamento emerge in molte ricerche nazionali: la solitudine, più che la mancanza di desiderio, è il vero collante del fenomeno. L’uso massiccio di pornografia e relazioni virtuali sostitutive — come rilevato da studi recenti sul disagio sessuale dei giovani — sta riscrivendo l’educazione sentimentale, spostando l’intimità in uno spazio privo di corpo e reciprocità.
La risposta, in chiave di politiche pubbliche, è meno romantica e più concreta: servono spazi terzi (non casa, non lavoro) dove socializzare; programmi anti-isolamento per adulti soli; servizi di salute mentale accessibili. La prevenzione della solitudine passa anche da qui. E forse la lezione più importante dello studio è proprio questa: non serve psicoanalizzare chi non ha rapporti, serve ricostruire il tessuto sociale che li rende possibili.