Lavorare troppo a 20 anni e ritrovarsi depressi a 50: i risultati dello studio di Wen-Jui Han
- 22/04/2024
- Popolazione
Lavora tanto, fai gli straordinari, vai a dormire tardi finché sei giovane. Quante volte vi siete sentiti dire o dite voi stessi questa frase? Il ragionamento è semplice: bisogna sfruttare l’energia della gioventù per dare un boost alla propria carriera e assicurarsi un futuro più tranquillo in vecchiaia, quando sarà impossibile tenere certi ritmi.
Semplice, ma non logico. Secondo un recente studio guidato da Wen-Jui Han, professoressa della NYU Silver School of Social Work e pubblicato su PLOS One, lavorare troppo da giovani aumenta esponenzialmente il rischio di cadere in depressione e avere una cattiva salute già nella mezza età, intorno ai 50 anni.
Già la genesi dello studio è emblematica: dopo aver abbracciato per anni la mentalità della cultura della fretta e della produttività a tutti i costi, a 40 anni il medico curante di Han le ha detto che aveva l’età biologica di un sessantenne. Da allora, la ricercatrice esperta nel campo della sociologia e dello sviluppo della psiche ha deciso di approfondire questa tematica. Ne è emerso uno studio che rivela come i ritmi estenuanti e il lavorare fino a tarda notte abbiano ricadute negative sulla salute dei lavoratori quando hanno ancora tanti anni di vita davanti.
Dal lavoro standard al lavoro senza orari
Partiamo dalla fine, dalle conclusioni del rapporto dove si evidenzia una relazione diretta tra l’aumento della produttività e il sorgere di problemi di salute soprattutto per gli individui con orari di lavoro “non standard”.
I ricercatori hanno evidenziato che dagli anni Ottanta, l’occupazione è stata modellata dai progressi tecnologici e digitali globali, insieme all’ascesa e al predominio dell’economia dei servizi. “Questi cambiamenti – si legge nel rapporto – hanno prodotto conseguenze indesiderabili sulla salute, inclusa l’interruzione della nostra routine del sonno, un aspetto della nostra vita quotidiana fondamentale per preservare la nostra salute”, come abbiamo già sottolineato nel nostro articolo dedicato al fenomeno dell’early night.
Lo studio guidato dalla prof.ssa Wen-Jui Han ha fondamenta solide, basandosi sull’analisi degli orari di lavoro e delle condizioni di salute di 7.336 lavoratori americani nell’arco di trent’anni. Ne è emerso che solo un quarto dei partecipanti lavorava con orari diurni regolari.
Nello specifico, è stato definito orario di lavoro “standard” il lavoro che inizia alle 6.00 o più tardi e termina alle 18.00, “serale” il lavoro che inizia alle 14 o più tardi e termina entro mezzanotte, “notturno” il lavoro che inizia alle 21 o più tardi e con termine entro le 8. Una particolare criticità è emersa anche per chi lavora a turni, definito orario “variabile” nell’indagine, ovvero se il partecipante ha avuto turni o orari irregolari.
I risultati dello studio
L’indagine trentennale offre un confronto dettagliato tra i vari scenari. Prima di entrare nel dettaglio, segnaliamo che le evidenze su problemi di salute fisica e/o mentale sono stati intercettati tramite le interviste ai lavoratori tra i 22 e i 49 anni. In pratica, si è chiesto ai lavoratori stessi come si sentissero, soprattutto in relazione agli stati di ansia e depressione.
I lavoratori con orari di lavoro variabili o non standard hanno testimoniato conseguenze negative su:
– quantità e qualità del sonno;
– funzionalità fisiche e mentali;
– cattive condizioni di salute o sintomi depressivi.
Queste conseguenze sono state testimoniate anche tra i lavoratori che hanno iniziato la propria carriera con orari di lavoro standard ma sono poi passati a orari “volatili” dopo i 30 anni. Anche in questi casi è stato testimoniato un cattivo stato di salute già all’età di 50 anni.
Ci sono poi di modelli occupazionali che prevedono orari standard ma con alcune ore variabili. Qui, i lavoratori testimoniano risultati significativamente peggiori in relazione al sonno e alla salute, ma rispetto ai lavoratori per cui l’orario variabile è (o è diventato) una regola, questi lavoratori non riferiscono conseguenze significative sulla funzionalità mentale.
Qualche riflessione nell’era della great resignation
I risultati di questo studio emergono in un momento storico particolare, caratterizzato dall’acuirsi della forbice sociale tra ricchi e poveri e dal fenomeno della great resignation. Sempre più persone preferiscono dare rilevanza alla propria salute prima che all’inquadramento lavorativo. Un recente report, frutto della collaborazione tra la piattaforma digitale Hacking Talents e Factanza Media, ha rilevato che il bisogno principale di Millenials e Gen Z è quello di instaurare relazioni autentiche ed empatiche all’interno dell’ambiente lavorativo, che favoriscano l’ascolto e la libertà di esprimersi.
Il report evidenzia che solo il 15% delle persone intervistate si sente completamente libera di esprimere la propria opinione sul lavoro, mentre il 64% dichiara di sperimentare stress quotidiano sul luogo di lavoro. Una situazione allarmante: “Quando il lavoro diventa un fattore di stress quotidiano, quelle viste nel report sono le conseguenze che ci si può aspettare 30 anni dopo”, spiega la professoressa Han.
Il tutto mentre le relazioni umane assumono un ruolo prioritario tra i giovani lavoratori, con la necessità di creare legami autentici ed empatici con i colleghi per favorire un ambiente lavorativo sostenibile. Insomma, il lavoro non è più visto come il focus principale, ma come un mezzo di crescita economica e professionale. L’idea sempre più frequente tra i giovani è che la vera vita sia altrove, fuori dal lavoro.
Certo, per qualcuno una buona retribuzione può ancora far chiudere un occhio, anche se questo non ha alcuna conseguenza benefica sulla salute. In ogni caso, difficilmente questo qualcuno lavora in Italia dove gli stipendi sono immobili da trent’anni acuendo la distanza tra imprese e dipendenti.
Non è solo una questione di salute
Ascoltare le richieste dei nuovi lavoratori non è solo una necessità etica per la loro salute. Lo studio condotto da Wen-Jui Han dimostra che ad un aumento dei sintomi depressivi corrisponde una diminuzione della produttività, altro tasto dolente del sistema Italia.
Dunque, i risultati suggeriscono che i modelli occupazionali che prevedono orari di lavoro non standard o variabili possono avere un impatto negativo sulla salute e sul benessere dei lavoratori, e che i datori di lavoro dovrebbero considerare l’impatto dei loro modelli occupazionali sulla salute e sul benessere dei propri dipendenti.
Ma allora perché si continua a lavorare con ritmi che il nostro organismo si rifiuta di assecondare? Per l’estrema competitività del sistema, che tenderà ad aumentare con l’enorme crescita demografica prevista a livello globale.
“Percepiscono che la cultura del loro lavoro richiede che lavorino a lungo, altrimenti potrebbero essere penalizzati”, spiega Han che aggiunge laconicamente: “Il lavoro dovrebbe permetterci di accumulare risorse, ma per molte persone questo non accade, rendendole al contrario più infelici nel tempo”. Dopo 30 anni di studio e a fronte dei lampanti risultati emersi ci sarebbero diverse frasi da poter citare della curatrice dello studio, una su tutte: “Il nostro lavoro oggi ci rende malati e poveri”.
Sia chiaro: non lavorare non è la soluzione. Il rapporto evidenzia che a chi non lavora o lavora/ha lavorato poco è associato una probabilità significativamente più elevata di cattive condizioni di salute e una funzionalità fisica significativamente inferiore rispetto ai lavoratori.
Dai romani a Lenny Kravitz
Forse la soluzione sarebbe tornare ai classici e a quell’“In medio stat virtus”, tanto caro ai romani quando la produzione non era un’ossessione e c’era ancora del tempo da dedicare sé stessi, alla filosofia, allo stare in piazza con gli altri consociati interrogandosi sui problemi concreti e sulle domande più esistenziali.
Negli ultimi decenni, invece, l’equilibrio è silenziosamente passato in secondo piano fino a scomparire nelle vite di miliardi di persone e il consiglio dei romani diventa una domanda nervosa, energica, tristemente senza risposta: “Where are we running?”, “Dove stiamo correndo”?
Difficile dirlo, mentre le parole di Lenny Kravitz risuonano nelle nostre teste: “We need some time to clear our heads. Where are we runnin’? Keep on working ‘til we’re dead”, “Abbiamo bisogno di rifrescare le nostre teste. Dove stiamo correndo? Lavoriamo fin quando non siamo morti”.
A noi il compito di dar vita a un’altra risposta, prima che diventi troppo tardi.
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