Ceto medio, per 3 italiani su 4 le generazioni future vivranno peggio di quelle attuali
- 19/06/2024
- Popolazione
C’era una volta la classe media che vedeva al futuro con ottimismo, convinta che la propria condizione sarebbe migliorata negli anni. Il tempo in cui rientrarci non era motivo di frustrazione ma di motivazione, rafforzata da una forte volontà di investire nel lavoro, nella carriera e nell’istruzione. L’idea era che il sistema, pur con tutte le sue complessità, fosse meritocratico e che gli sforzi sarebbero stati ripagati.
Oggi, di tutta questa bellezza (o apparente tale) al ceto medio italiano non resta quasi nulla.
Il ceto medio in Italia
Il cambio di prospettive può essere riassunto in una parola: “fragilizzazione”, usata dal Censis nella sua indagine sul valore del ceto medio per l’economia e la società.
La Confederazione dei dirigenti e delle alte professionalità del pubblico e del privato (Cida) che ha commissionato l’indagine al Censis ha evidenziato risultati preoccupanti: “Assistiamo da tempo a una lenta erosione del ceto medio italiano, ma oggi il fenomeno è accelerato e rischiamo di perdere il motore della nostra economia”, ha spiegato Stefano Cuzzilla, presidente del Cida, che ha aggiunto: “A me preoccupa soprattutto questa assenza di speranza nel futuro: se le aspettative calano, se non si crede più di poter migliorare la propria condizione, se si ritiene che le generazioni future staranno peggio di quelle attuali (il 75,1% di chi si dice ceto medio lo crede), sarà il Paese intero a pagare un prezzo altissimo”.
I numeri della regressione
È difficile scegliere il dato simbolo di questa ricerca. Secondo il rapporto:
- il 60,5% degli italiani si identifica ancora con il ceto medio, ma
- più della metà degli italiani (54,2%) prova un senso di regressione sociale;
- inoltre, il 75,1% di coloro che si considerano ceto medio crede che le generazioni future vivranno peggio di quelle attuali.
Per tre italiani su quattro, quindi, la regressione è all’inizio del suo percorso.
Il termine “fragilizzazione” utilizzato nel rapporto del Censis descrive bene la condizione attuale del ceto medio italiano. Questa fragilità è il risultato di processi globali che hanno rallentato la crescita della ricchezza e ampliato le disuguaglianze. Anche le politiche nazionali ed europee su fisco e welfare, specialmente in ambito sanitario e pensionistico, hanno avuto un impatto negativo sulle famiglie del ceto medio, evidenzia l’indagine.
I problemi del ceto medio in Italia
La percezione di appartenenza al ceto medio varia significativamente tra le diverse aree del paese. Al Centro Italia, il 66,3% si considera ceto medio, contro il 55,5% nel Sud e nelle Isole. Sotto il profilo anagrafico, gli anziani che si sentono parte del ceto medio sono di più (65,4%) rispetto ai giovani (57,7%).
Produttività e salari troppo bassi
Dal 2001 al 2021, il reddito pro capite delle famiglie italiane è sceso del 7,7%, mentre la media europea è aumentata di quasi 10 punti percentuali. Questa situazione ha alimentato la paura del declassamento: il 54,2% degli italiani sente di retrocedere nella scala sociale. Questa sensazione è diffusa anche tra i dirigenti (45,7%), gli imprenditori (54,5%) e gli operai (59,1%).
Nel 2022 gli stipendi italiani segnavano un -3,4% rispetto al 2019, l’ultimo anno pre Covid. Il Boom economico sembrava e sembra lontano anni luce.
Nel Belpaese i salari medi lordi nel 2019 erano pari a 46.460 dollari a parità di potere d’acquisto, mentre nel 2022 il valore è sceso sotto i 45mila. Il calo più marcato si è verificato tra il 2019 e il 2020, quando la variazione è stata pari al -4,8%.
Se in Italia la quantità di lavoro ha raggiunto livelli record, lo stesso non si può dire della “qualità” del lavoro, intesa come retribuzione del tempo e delle energie impiegate dai dipendenti. Questo principalmente a causa dell’inflazione che è cresciuta a un ritmo molto più sostenuto dei salari lordi, specialmente in Italia dove i salari sono fermi dal 1991. Openpolis certifica che nel 2022 la spesa familiare per i cittadini europei ha registrato un pesante +11,5%, trainata dall’inflazione. L’aggressione russa dell’Ucraina ha bloccato sul nascere la ripartenza: dal Covid si è passato alla guerra e alle sue conseguenze.
Questo contesto aggrava il ritardo dei salari italiani, provocato principalmente da una scarsa produttività rispetto agli altri Paesi sviluppati. A partire dalla seconda metà degli anni Novanta la crescita della produttività è stata di gran lunga inferiore rispetto ai Paesi del G7. Nel 2021 la produttività italiana è stata il -25,5% rispetto a quella degli altri Paesi analizzati. La scarsa produttività e la scarsa remunerazione del lavoro vivono in osmosi: salari troppo bassi non stimolano i lavoratori e la scarsa produttività ostacola l’aumento salariale.
Differenze sempre più ampie
Il ceto medio si indebolisce anche perché (non solo in Italia) aumenta il divario tra ricchi e poveri. Oxfam riporta che nel Belpaese “A fine 2022, l’1% più ricco, sotto il profilo patrimoniale, deteneva una ricchezza 84 volte superiore a quella del 20% più povero della popolazione. Il nostro Paese occupa inoltre da tempo le ultime posizioni nell’Ue per il profilo meno egalitario della distribuzione dei redditi”. Anche i dati Bankitalia parlano di una forbice sociale sempre più ampia: secondo i dati trimestrali pubblicati a inizio 2024, in Italia il 5% delle famiglie più abbienti detiene circa il 46% della ricchezza netta totale.
Le difficoltà dei giovani
Dal rapporto Censis emerge che il 76% degli italiani ritiene che sia sempre più difficile migliorare la propria posizione sociale. Questa opinione è condivisa dal 74,7% del ceto medio e dal 79,5% del ceto popolare.
Il 57,9% crede che in Italia impegno e talento non siano adeguatamente premiati, l’81% pensa che chi lavora di più debba guadagnare di più, e il 73,7% sostiene che sia giusto che una persona di talento diventi ricca. Una forte richiesta di meritocrazia, raramente accolta dal sistema.
Questi meccanismi sono alla base della fuga dei cervelli, che aggrava la crisi demografica già esistente. Nel 2021, quasi 18 mila giovani laureati hanno deciso di lasciare il Paese, +281% rispetto al 2011. A causare la grande fuga non ci sono solo i salari troppo bassi ma anche le condizioni precarie che riguardano il 41% degli under 35 impiegati in Italia. Una disparità che si traduce in un reddito inferiore e nella mortificazione degli sforzi fatti. In Italia, i giovani con contratti stabili guadagnano in media 20.431 euro, mentre quelli con contratti a termine e stagionali si fermano rispettivamente a 9.038 euro e 6.433 euro.
Nel settore pubblico, i giovani lavoratori (15-34 anni) hanno raggiunto una retribuzione lorda media annua di 23.253 euro nel 2022, rappresentando una volta e mezza quella del settore privato. Tuttavia, nonostante un aumento nominale delle retribuzioni dal 2018, sia nel settore privato sia in quello pubblico, l’inflazione ha eroso il potere d’acquisto, registrando una variazione negativa delle retribuzioni reali pari al -1,7% nel privato e al -7,5% nel pubblico.
I giovani italiani andrebbero aiutati, ma 3 su 4 ritengono che gli adulti comprendano poco o per nulla i loro problemi, come emerge dal rapporto ‘Giovani 2024: Bilancio di una generazione‘. La stessa percentuale (75%) di chi sostiene che le future generazioni avranno un futuro peggiore di quelle attuali.
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