L’Italia tra pensioni e migrazioni
- 10/10/2023
- Popolazione
Pensioni, tema demografico e migrazioni. Facce diverse di un problema complesso che viene spesso ridotto a due alternative: chi è a favore dell’immigrazione e chi punta tutto sulla natalità ‘interna’. Capire quali siano le ricette per migliorare la situazione attuale – che in Italia parla di inverno demografico e allo stesso tempo di giovani e meno giovani che lasciano il Paese – e se di contro l’immigrazione sia o meno una opportunità, è stato uno dei temi al centro della tavola rotonda dal titolo ‘Quale futuro per le italiane e gli italiani che invecchiano? Tra pensione e mobilità’. Un incontro che si è tenuto nell’ambito del convegno ‘L’Italia delle partenze e dei ritorni. Pensionati migranti di ieri e oggi’, organizzato da Inps e Fondazione Migrantes a Palazzo Wedekind a Roma.
Moderato da Fabio Insenga, vicedirettore Adnkronos e responsabile del progetto ‘Demografica’, la tavola rotonda ha visto partecipare Micaela Gelera, commissario straordinario dell’Inps, mons. Gian Carlo Perego, presidente Fondazione Migrantes, e Luigi Maria Vignali, direttore generale per gli italiani all’estero e le politiche migratorie – Maeci.
Le migrazioni sono un’opportunità?
Per mons. Perego, la migrazione ordinata e legale è una risorsa fondamentale per un Paese che come l’Italia che abbia bisogno di rigenerarsi. Le politiche familiari sono necessarie ma hanno effetto sul lungo periodo, in 25 anni. Ecco perché nel frattempo l’immigrazione è un’opportunità, spiega il prelato, su vari fronti:
• per gli aspetti contributivi e previdenziali
• perché “i diversi mondi, le nostre città stanno crescendo anche grazie alla presenza dei migranti”
• perché molti studenti sono immigrati o figli di immigrati e ciò ha consentito di mantenere posti di lavoro e, ad esempio, la presenza di scuole nei borghi
• per il mondo imprenditoriale, che richiede 800mila migranti nei prossimi anni
• per l’arricchimento culturale: sono 80mila gli studenti universitari immigrati, in un contesto che vede l’Italia come il Paese europeo che attrae di meno gli studenti stranieri
• circa tre mln di famiglie hanno almeno un componente di un’altra nazionalità, con conseguenti nascite ‘miste’
• per l’imprenditoria, perché se in 15 anni è andato perso 8% delle imprese italiane, sono invece cresciute del 15,6% quelle che fanno capo a immigrati, “che hanno adottato la forma italiana, quindi piccole imprese, fatte di persone”
Come agire per girare a nostro vantaggio il trend demografico?
Partendo da queste considerazioni, secondo mons. Perego si deve partire dalle politiche familiari e dalle politiche migratorie, che sono strettamente connesse. I Paesi più ricchi, evidenzia, sono quelli con più migranti. Inoltre, sono necessarie politiche della casa rivolte alle giovani coppie, alle famiglie e ai migranti. Favorire la residenzialità, ad esempio per gli alloggi popolari, penalizza la migrazione interna dei giovani che si spostano per lavoro o per matrimonio e finisce per avvantaggiare solo gli anziani.
Ancora, spiega il presidente Fondazione Migrantes, va messa mano all’edilizia pubblica: “Siamo all’ultimo posto dopo essere stati al primo, perché non c’è stato un riordino di questo patrimonio. Nelle grandi città il peso dell’affitto sulle retribuzioni può arrivare all’80% del reddito, con tutte le conseguenze che ne derivano”.
E’ anche importante, continua, agevolare il ricongiungimento familiare, anch’esso eccessivamente parametrato sulle casa e in Italia molto penalizzato: per ottenerlo ci vogliono in media 8 anni. Infine, mons. Perego sottolinea come donne e immigrati siano discriminati sia nell’accesso al lavoro che nella retribuzione, le prime dalla maternità e i secondi dalla loro provenienza.
La migrazione delle donne ieri e oggi
Sulla situazione femminile in Italia si è espressa anche Micaela Gelera ricordando che nel secolo scorso le donne migravano per seguire il coniuge che partiva in cerca di migliori condizioni di lavoro, per poi trovarsi nei Paesi di destinazione a prendersi cura dei familiari senza entrare praticamente mai nel mondo del lavoro, rimanendo dunque confinate nell’ambito domestico.
Oggi le cose sono cambiate ma, sottolinea la commissaria straordinaria dell’Inps, “in modo preoccupante”. Infatti adesso partono le donne che in Italia non riescono ad accedere a profili di alto livello, anche dal punto di vista remunerativo. Si tratta quindi di figure con elevata formazione ed elevate competenze.
Un tipo di emigrazione che riguarda principalmente le donne perché “sono particolarmente penalizzate, per via della difficoltà in Italia a rompere il soffitto di cristallo e accedere a posizioni apicali: nel privato sono il 43% delle impiegate ma hanno una retribuzione annua di 8mila euro inferiore agli uomini, nel pubblico sono il 61% della forza lavoro ma prendono circa 10mila euro in meno”.
Gelera sottolinea anche l’importanza della conciliazione vita lavoro e dei servizi offerti, carenti in Italia, e ricorda che le modalità di reclutamento nel mondo del lavoro sono maschili. Inoltre, il contesto culturale prevede che sia la parte femminile a doversi occupare della famiglia, sia dei figli che degli anziani: una disparità evidente di genere risolta in modo diverso negli altri Paesi.
E se partenze e ritorni sono un fenomeno inarrestabile e da gestire, per Gelera la sfida è attrarre nuove risorse, prevalentemente attraverso:
• politiche del lavoro
• costo del lavoro
• servizi pubblici
• fisco e oneri burocratici che consentano al lavoratore e all’imprenditore di creare impresa e ricchezza
• servizi evoluti
Tutti questi aspetti, spiega Gelera, portano “a una maggior attrazione e un minor allontanamento” delle persone dal proprio Paese. Le potenzialità italiane di attrattività sono enormi, e le leve per evitare il trasferimento all’estero dei connazionali sono analoghe a quelle per attrarre.
La tenuta del sistema pensionistico
Il fenomeno migratorio delle donne nel secolo scorso produceva pensioni ai superstiti ma oggi l’Italia che lavora all’estero porta le contribuzioni all’estero. Un aspetto da considerare anche a nostro favore, evidenzia Gelera: ad esempio, le donne che vengono a lavorare in Italia come collaboratici domiciliari sono quasi tutte dell’Est Europa o del Sud America, e costituiscono un bacino importante di persone relativamente inserite nel tessuto sociale. Sono risorse sia per il ruolo di assistenza che svolgono, sia per la loro contribuzione al sistema pensionistico pubblico.
Proprio pensando al sistema pensionistico pubblico, Gelera ammette che “c’è una certa preoccupazione per l’invecchiamento della popolazione” ma ricorda anche come nella sostenibilità del sistema stesso siano già stati introdotti elementi ‘correttivi’: “Il calcolo della pensione è ormai quasi del tutto contributivo, e i coefficienti di trasformazione e i requisiti sono calcolati in base all’aspettativa di vita”.
E’ qui che si apre il problema per giovani, donne e immigrati, che non riescono ad accedere a posizioni meglio retribuite. Ed è qui che occorre intervenire, sul versante contributivo legato a quello del lavoro, oltre che sulla conciliazione vita privata-professione.
Armonizzare a livello europeo le regole dei sistemi previdenziali può essere utile? Secondo la commissaria Inps, si tratta di un’operazione complessa perché c’è dietro ciò che caratterizza il sistema produttivo e fiscale di vari Paesi e su questo tema l’Europa è ancora molto distante. Ma non è il trattamento pensionistico a spingere giovani, donne, lavoratori, persone fragili a spostarsi, bensì le condizioni socio-economiche sanitarie dei Paesi di origine: è su queste che occorre agire.
Migrazioni, rifugiati e comunità locali
Da una parte dunque la necessità di ‘trattenere’ gli italiani in Italia, vista l’emorragia in uscita di 100mila persone più e meno giovani ogni anno, un flusso che Vignali del Maeci definisce “’energia in movimento’, alla ricerca di un riconoscimento di un merito che non trovano in Italia, e di opportunità di vita migliori”; dall’altra quella di incrementare la natalità, e dall’altra ancora quella di considerare i migranti un’opportunità.
Un aspetto che coinvolge anche i rifugiati, che, ricorda Vignali, sono ormai 110 mln nel mondo secondo i dati dell’Alto Commissariato per i Rifugiati. Dunque c’è un nodo di accoglienza e di creazione di corridoi umanitari, un’esperienza che il Maeci ha sviluppato anche in collaborazione con enti religiosi di varie fedi.
Ma non basta: per Vignali occorre sostenere le comunità locali, migliorare il tenore di vita dei rifugiati e tutelarli da vessazioni e aggressioni. Ciò passa anche dal loro inserimento lavorativo. Il Decreto Flussi, che decide quanti migranti possono entrare nel mercato del lavoro italiano, quest’anno per la prima volta dedica una quota ai rifugiati e offre la possibilità di formarli prima di farli venire in Italia.
Per mons. Perego, in definitiva, occorre passare da una politica migratoria che punta alla sicurezza a un altro percorso, quello di tutela e valorizzazione delle persone in un’ottica rigenerativa.
A monte, sottolineano Vignali e mons. Perego, la gestione delle migrazioni dovrebbe essere fatta congiuntamente dall’Europa e non riguardare solo il Paese di primo approdo (che è spesso l’Italia). Perché uno Stato da solo non può affrontare la questione, afferma Vignali, devono occuparsene l’Unione europea e la comunità internazionale in modo multilaterale. Il Maeci dunque sta lavorando per portare avanti politiche di partenariato mirate a creare le condizioni di sviluppo che favoriscano il ‘diritto a non partire‘’, in un dialogo costante in particolare con l’Africa, ma non solo.
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