Italiani tra i più stacanovisti d’Europa: quali conseguenze sulla demografia?
- 06/05/2024
- Popolazione
Italiani, popolo di eroi, di santi, di poeti, di artisti, di navigatori, di colonizzatori, di trasmigratori e di…stacanovisti. A dirlo è l’ultimo rapporto Eurostat da cui emerge che in Italia quasi un lavoratore su dieci tra i 20 e i 64 anni nel 2023 ha lavorato in media almeno 49 ore alla settimana, una percentuale superiore a quella media dell’Unione europea (7,1%).
Tra i 27 solo Grecia, Francia e Cipro registrano una percentuale maggiore di lavoratori che raggiungono questo monte ore.
Il 9,6% degli occupati italiani ha lavorato l’equivalente di un giorno in più a settimana, considerando un orario standard tra le 36 e le 40 ore a settimana. Basterebbe farsi un giro altrove per capire che questa non è la prassi negli altri Paesi Ue: nelle Repubbliche baltiche raggiungono queste ore extra di lavoro l’1/2% dei lavoratori. Percentuali più alte, ma nettamente al di sotto dell’Italia, nei Paesi scandinavi (la Norvegia è al 5,2% e la Finlandia al 5,7%) e in Germania con il 5,4%.
Autonomi e manager i più stacanovisti
I risultati non sono equamente distribuiti tra le varie categorie di lavoratori. Gli italiani più stacanovisti sono i lavoratori autonomi: secondo la ricerca, quasi un autonomo su tre (29,3%) dichiara di lavorare 49 ore settimanali. Più in generale, a superare la soglia del normale orario di lavoro sono il 46% degli autonomi italiani contro il 41,7% della media dei “colleghi” europei.
Diverso lo scenario dei dipendenti, anche frutto del divario crescente tra aziende e lavoratori come dimostra il fenomeno della Great Resignation e la costante fuga dei cervelli. Lavorano su orari lunghi il 3,8% dei subordinati italiani contro il 3,6% della media europea.
Dichiarano di lavorare oltre le classiche 40 ore settimanali anche i professionisti, gli addetti nell’agricoltura (36,3% contro il 27,5% in Ue) e gli impiegati nei servizi e nelle vendite (10,9% contro il 6,5%).
Tra le categorie professionali più stacanoviste, con quasi 50 ore settimanali, spiccano i manager, sia autonomi che dipendenti: nel primo caso arrivano al 40,5%, più del doppio rispetto alla media Ue.
Gender gap e conseguenze
Anche questa report Eurostat evidenzia un importante gender gap con le sue conseguenze in chiave demografica. Spesso, infatti, gli orari lunghi interessano gli uomini italiani: il 12,9% degli occupati totali dichiara di lavorare 49 ore alla settimana (nell’Ue sono il 9,9%). Anche tra i dipendenti la percentuale aumenta tra gli uomini: è al 5,1%.
Nonostante il divario, anche le donne italiane che lavorano almeno 49 ore alla settimana sono aumentate in Italia: sono il 5,1% del totale contro il 3,8% nel resto dei 27. Il divario rispetto agli uomini si presta a diverse chiavi di lettura: positiva se si pensa che le donne riescono ad avere orari lavorativi più standard, negativa se si pensa che spesso questo gap è dovuto a minori responsabilità e opportunità di carriera per le donne.
Come leggere il gender gap
C’è poi un altro aspetto cruciale quando si parla di monte ore e famiglia: se gli uomini restano a lavorare più delle donne, spesso queste ultime devono accollarsi la cura della famiglia e della casa, che è un’attività non retribuita.
Questo scenario è ampiamente confermato dallo studio di LHH che testimonia un aumento dell’occupazione femminile nel corso del tempo, ancora insufficiente però a colmare il gap. Nel 2022 l’occupazione femminile ha superato il 51%, contro il 69% degli uomini. L’analisi si è soffermata sul calcolo della RAL annuale in Full Time Equivalent (Fte) del settore privato, escluse sanità e istruzione privata. Nell’anno 2022, l’Osservatorio JobPricing ha registrato un pay gap pari all’8,7%, che raggiunge il 9,6% considerando la RGA (Retribuzione Globale Annua, comprensiva cioè̀ della parte variabile). Dunque, un gap di 2.700 euro lordi sulla RAL e circa 3.000 euro sulla RGA.
Il “soffitto di cristallo”, così come lo ha definito la stessa LHH, è causato principalmente dalla differenza uomo-donna nella progressione di carriera, con le donne italiane che rappresentano una minoranza nei ruoli dirigenziali e quadri. La disparità è particolarmente evidente nel settore privato con l’83% dei dirigenti rispetto al 17% delle donne e il 69% “quadri” maschili rispetto al 31% femminile. Il gap è meno accentuato nel pubblico, anche per effetto di alcune norme a favore delle quote rosa che migliorano il dato del mercato nel suo complesso (dirigenti: 67% uomini, 33% donne; quadri: 55% uomini, 45% donne).
Gli uomini chiedono di fare la loro parte
Dunque, gli italiani sono tra i più stacanovisti d’Europa e le ore di lavoro aumentano per gli uomini e i manager che spesso, appunto, sono uomini. La cura della casa è per lo più affidata ancora alle donne, anche se si sono avuti miglioramenti negli ultimi anni. In sintesi, spesso le donne italiane si trovano costrette a scegliere tra carriera e genitorialità come dimostrano i dati sulle dimissioni delle neomamme in Italia.
Il tutto è aggravato dalla crisi dei servizi all’infanzia che interessa il Belpaese: sono troppo pochi e quelli che ci sono costano molto, soprattutto se paragonati agli stipendi medi italiani, fermi da tre decenni.
Qual è allora la strada per migliorare la situazione?
La risposta è molteplice e riguarda senz’alto l’equilibrio vita-lavoro, l’aumento degli stipendi e la riduzione del gender gap. In questo senso, sempre più uomini chiedono di fare la loro parte e molti manager vorrebbero l’estensione del congedo di paternità obbligatorio.
L’attuale durata di 10 giorni è l’emblema di una cultura e di una struttura per cui le donne devono stare a casa, e gli uomini, a casa, ci devono portare il pane. Una logica frutto della situazione socio-economica e dei lavori più sviluppati nel ‘900, spesso manuali, ma oggi del tutto anacronistica. Negli ultimi anni si sono registrati dei progressi nella distribuzione delle mansioni in casa anche grazie ad una cultura più evoluta ben intercettata e sostenuta dal mondo della comunicazione. Lo dimostrano le pubblicità che mostrano gli uomini intenti a svolgere mansioni tradizionalmente attribuite alle donne come stirare, fare il bucato e cullare il figlio neonato. Purché alle 20 non sia ancora al lavoro o vittima del traffico della città tornando dal lavoro.
Italiani stacanovisti, le conseguenze del lavoro eccessivo
Chiaramente, la soluzione per il gender gap non può essere quella di aumentare il monte ore delle donne, ma ridurre quello degli uomini e attribuire ruoli di maggiori responsabilità alle donne. D’altra parte, non vanno sottovalutate le conseguenze che l’essere stacanovisti ha sulla salute dei lavoratori e delle lavoratrici. Come dimostrato da un recente e approfondito studio guidato da Wen-Jui Han, professoressa della NYU Silver School of Social Work e pubblicato su PLOS One, lavorare troppo da giovani aumenta esponenzialmente il rischio di cadere in depressione e avere una cattiva salute già nella mezza età, intorno ai 50 anni.
Lavorare tanto può essere anche un fattore positivo, ma se reiterato e causa di eccessivo stress incide anche sulla vita extralavorativa. Spesso, gli italiani si trovano a fare i conti con la fatidica domanda: “Se lavoro 50 ore a settimana, chi tiene nostro figlio?”. Un’esigenza a cui va incontro il nuovo piano asili nido da 734,9 milioni di euro. Per contrastare la crisi demografica, però, serve un approccio olistico che con al centro la necessità di intervenire sui salari e sull’equilibrio vita-lavoro, sempre più determinante nelle scelte dei giovani.
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