L’Italia è il Paese con gli stipendi più bassi tra i grandi d’Europa (e la situazione può peggiorare)
- 18/02/2025
- Popolazione
Tra i grandi Paesi europei, l’Italia è quello con gli stipendi reali più bassi. I dati dell’ultima indagine Eurostat lasciano poco spazio alle interpretazioni: in media, gli stipendi italiani sono il 15% più bassi degli stipendi degli altri Paesi dell’Unione europea. Qui trovate il link con il grafico completo redatto dall’ufficio di statistica europeo, che considera anche Paesi non Ue ma geograficamente europei come la Svizzera.
I dati si riferiscono al 2023, l’ultimo disponibile confrontando i valori nei Paesi Ocse ed è una risposta incontrovertibile a chi ritiene che i salari nominali bassi siano bilanciati dal costo della vita più modesto rispetto a Paesi più ricchi. Insomma, la logica per cui “negli altri Paesi gli stipendi sono più alti, ma tutto costa di più”, tesa a ridimensionare l’atavico problema italiano, non regge. L’indagine Eurostat si basa infatti su un parametro che già sconta il costo della vita di ciascun Paese, ovvero il Purchasing Power Standard (Pps). Si tratta di una valuta artificiale che permette di fare un confronto preciso. Per intenderci, con mille Pps in Italia posso comprare esattamente gli stessi beni e servizi che acquisterei con mille Pps in Germania o in qualsiasi altro Paese oggetto di indagine. La classifica si riferisce alla retribuzione di una persona single senza figli, al netto del cuneo fiscale che in Italia ha un enorme peso specifico (solo quattro Paesi nell’area Ocse hanno una tassazione sul lavoro maggiore).
Restando nell’ambito dell’Ue, nel 2023, la retribuzione media è stata di 27,5mila Pps, contro una media italiana di circa 24mila Pps (-15%).
Stipendi europei, la classifica
La Svizzera stacca gli altri Paesi con oltre 47 mila Pps di stipendio netto medio, davanti ai Paesi Bassi con quasi 39mila Pps e alla Norvegia dove la retribuzione media in Pps è quasi di 36.300 Pps. Subito dopo il podio ci sono il Lussemburgo, l’Austria, la Germania con quasi 35mila Pps all’anno.
Come si evince dal grafico, l’Italia, con i suoi 24.051,23 Pps, è dietro a Paesi come Turchia, Belgio, Cipro, ma anche Spagna, Francia e Germania, tre Paesi demograficamente più simili al nostro. Lo stipendio medio italiano è inferiore a quello tedesco del 45%, a quello francese del 18% e a quello spagnolo del 2%. La Svizzera ‘capolista’ è a un passo dal doppiare il Belpaese. Non a caso, tanti italiani sono emigrati nel Paese elvetico e tanti giovani continuano a lasciare l’Italia cercando fortuna (o almeno dei salari dignitosi) nei vicini Paesi europei.
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Proprio l’aspetto demografico non può essere sottovalutato. Ci sono sempre meno giovani, il tessuto imprenditoriale italiano si impoverisce e la produttività cala. Con questo scenario è più probabile che la situazione peggiori, piuttosto che migliorare, proprio perché ci saranno sempre meno lavoratori.
Gli stipendi e l’apparente controsenso demografico
Posto che i giovani lasciano l’Italia (principalmente) per i salari troppo bassi, ha senso dire che i salari sono bassi anche perché ci sono pochi giovani? La risposta è sì, e il controsenso è solo apparente.
Si potrebbe pensare, infatti, che essendoci meno offerta (cioè meno lavoratori perché ci sono meno nascite), la domanda (leggi: le imprese) siano costrette a offrire stipendi più elevati per attrarre i lavoratori. Ma l’economia non si spiega solo con l’economia. Se un’impresa ha meno lavoratori giovani, andrà incontro a una produttività minore e quindi genererà un utile minore. In questo modo è impossibile che un’azienda che oggi offre mille, domani offra di più. Un aumento di stipendio potrà esserci solo come effetto inflattivo: la moneta vale di meno, i prezzi salgono, i salari salgono. Il nocciolo della questione è di quanto salgono gli stipendi rispetto al caro vita, un valore fotografato con precisione dal Pps dell’Eurostat.
Allarghiamo la riflessione. Eccezioni a parte, se più aziende non riescono ad essere competitive (hanno meno lavoratori o meno lavoratori giovani), sono destinate a sparire dal mercato perché non riescono ad affrontare i costi. Così la crisi demografica della popolazione diventa crisi demografica delle imprese. Il risultato è intuitivo: non cala solo l’offerta (lavoratori disponibili) ma anche la domanda (imprese che assumono). Prima di abbassare la saracinesca per l’ultima volta, per queste aziende offrire stipendi competitivi rispetto alle concorrenti degli altri Paesi sarà complicato.
Non solo. La crisi demografica incrocia quella economica anche sotto il profilo fiscale. Se la popolazione invecchia, i costi della Pubblica amministrazione aumentano perché la gente avrà mediamente più bisogno della sanità pubblica (per questo il sistema sanitario nazionale non può più bastare). Nel frattempo, a causa delle pensioni troppo basse, il governo dovrà continuare a finanziare anche servizi non sanitari per le persone anziane che devono prendere i mezzi, fare la spesa, pagare una colf e così via. Questi soldi da qualche parte andranno presi. E la risposta è sempre la stessa: dalle imprese e dai lavoratori.
Come si esce da questo circolo vizioso? Visti i numeri della denatalità italiana, solo con un cambio di rotta molto deciso. Un esempio potrebbe essere quello del Portogallo che, per evitare che la crisi demografica inneschi conseguenze irreversibili, ha introdotto una massiccia detassazione per i lavoratori under 35. Qui, le cause della fuga dei cervelli sono simili a quelle dell’Italia: salari bassi e prezzi degli affitti alti. Nel contesto portoghese, questa situazione è aggravata dall’arrivo dell’arrivo dei ricchi pensionati, attratti dalle precedenti politiche fiscali vantaggiose. Ora, il premier Montenegro ha indetto il cambio di rotta per rendere il Portogallo un Paese “amico dei giovani”. Il piano prevede ingenti agevolazioni fiscali per dieci anni:
- Primo anno: esenzione totale dalle tasse per il primo anno di lavoro dei giovani sotto i 35 anni;
- Dal secondo al quarto anno: esonero del 75% delle imposte sui redditi da lavoro;
- Dal quinto al settimo anno: esonero del 50% delle imposte;
- Dall’ottavo al decimo anno: l’esenzione scende al 25% delle imposte dovute.
Una riflessione è doverosa, prima che molti italiani decidano di diventare lusitani.