Mai più Pikachu in Giappone, governo nipponico contro i kirakira names
- 3 Giugno 2025
- Mondo Popolazione
Il Giappone ha chiuso i battenti alla sfrenata fantasia genitoriale. Dal 26 maggio, non sarà più possibile registrare neonati con nomi come Pikachu, Akuma (diavolo) o Nike. Una decisione che segna la fine di un’era: quella dei kirakira names, letteralmente “nomi scintillanti”, ritenuti fuori luogo dall’amministrazione giapponese.
La nuova normativa, frutto di modifiche al Family Register Act, conferisce alle autorità locali il potere di rifiutare nomi considerati troppo eccentrici o difficili da pronunciare. Per quanto faccia tornare alla mente ricordi leggeri e simpatici (impossibile dimenticare i pomeriggi passati a guardare Pikachu mentre Ash in giro per il mondo), la vicenda è lo specchio della difficile convivenza tra individualismo e tradizione in una società che invecchia rapidamente.
La moda dei nomi “brillanti” in Giappone
La moda dei kirakira names esplose negli anni Ottanta, quando i genitori giapponesi iniziarono a sperimentare con letture non convenzionali dei kanji. Se tradizionalmente i bambini si chiamavano Taro, Hiroyasu, Yuko o Mariko, le nuove generazioni si ritrovarono con nomi come Lovely Kitty, Prince Naruto, Purin (pudding) o Dorami, personaggio dell’anime Doraemon, molto famoso anche in Italia.
Il fenomeno non riguardava solo nomi famosi di anime o manga, ma i nomi assurdi tout court: un po’ come chiamare proprio figlio Silvio Berlusconi Boahene, come successo a un ragazzo nato a Modena nel 2005.
In Giappone questa pratica raggiunse i massimi livelli e alcuni casi fecero particolare scalpore. Nel 1993, Shu e Akako Sato scatenarono l’indignazione pubblica chiamando il figlio Akuma, “diavolo”. Nonostante le proteste e una battaglia legale, la coppia dovette alla fine cambiare il nome. Ma il padre non si arrese: dichiarò di voler chiamare un futuro figlio maschio Teio, “imperatore”, una scelta che sarebbe stata problematica dal momento che la cultura giapponese considera l’imperatore il “simbolo dello Stato e dell’unità del popolo”. Non ci sono notizie sull’evoluzione della vicenda, ma soprattutto non ci sono dubbi che, dal 26 maggio in poi, un nome del genere sarebbe facilmente cassabile dall’amministrazione.
Altri genitori optarono per riferimenti geografici legati alle Olimpiadi. L’ex pattinatrice olimpica Seiko Hashimoto chiamò i suoi figli Girishia (Grecia) e Torino, in onore delle città che ospitarono i Giochi durante le loro nascite.
Cosa c’è dietro queste scelte?
Dietro questa battaglia sui nomi si cela una realtà demografica drammatica. Il Giappone sta vivendo un inverno demografico senza precedenti: nel 2024 sono nati appena 720.988 bambini, il nono record negativo consecutivo, con un calo del 5% rispetto all’anno precedente. I decessi hanno raggiunto quota 1.618.684, quasi doppiando le nascite.
In questo contesto, ogni neonato diventa prezioso. E forse proprio per questo i genitori hanno cercato di renderli unici attraverso nomi che li distinguessero dalla massa. “È un modo per resistere a una società che tende a schiacciare l”individuo”, osservano gli esperti. Ma questa ricerca di unicità ha creato problemi pratici enormi.
Il caos burocratico creato dai kanji creativi
Il sistema di scrittura giapponese utilizza tre alfabeti, tra cui i kanji, caratteri di origine cinese che possono avere multiple pronunce. Un singolo carattere può essere letto in dieci modi diversi, creando un rompicapo per chiunque debba decifrarne il significato.
I nomi kirakira hanno trasformato questo sistema in un labirinto. Genitori creativi sceglievano caratteri dal suono simile al nome desiderato, ignorando le letture tradizionali. Il risultato? Insegnanti che non sapevano come chiamare i propri alunni, medici in difficoltà con le cartelle cliniche, impiegati comunali che inserivano pronunce sbagliate nei documenti ufficiali.
“Con l’avanzare della digitalizzazione, i sistemi informatici devono essere in grado di ‘capire’ automaticamente i dati”, spiegano le autorità. Ma quando un nome può avere dieci pronunce diverse, i software vanno nel panico.
Tra libertà e conformismo anche fuori dal Giappone
La stretta sui nomi kirakira riflette tensioni più profonde nella società giapponese. Da un lato, l’individualismo crescente spinge i genitori a distinguere i propri figli. Dall’altro, il conformismo tradizionale considera questi nomi una minaccia all’ordine sociale.
“I nomi kirakira sono espressione di individualismo, sono innocui e non giustificano una regolamentazione governativa”, hanno protestato alcuni utenti sui social. Ma la maggioranza della popolazione sembra favorevole alla stretta, considerandola una “semplificazione necessaria per convivere meglio nel presente”.
Il fenomeno non è esclusivamente giapponese. Anche la Nuova Zelanda mantiene una lista rigorosa di nomi vietati, che include King, Princess, Queen, Duke, Emperor e Crown e altri Paesi impongono linee guida severe sui nomi accettabili.
I nomi kirakira rappresentavano un tentativo di sintesi, spesso maldestro, tra la tradizione e il nuovo mondo digitalizzato e globalizzato.
La nuova normativa segna un ritorno all’ordine, ma anche la fine di un esperimento sociale unico in un Paese profondamente legato al mondo che degli anime e dei comicon. Basti pensare che i residenti di Kawara, un villaggio nella Prefettura di Fukuoka, hanno creato un gioco di carte collezionabili chiamato Saido Otoko Cards, noto anche come Ojisan Trading Card Game, dove i personaggi popolari della comunità diventano delle carte da gioco in stile “Yu-Gi-Oh!”.
Resta da vedere se questa decisione contribuirà davvero a semplificare la vita dei giapponesi o se rappresenta semplicemente l’ennesimo tentativo di una società che invecchia di controllare le spinte centrifughe delle nuove generazioni. Una cosa è certa: dal 26 maggio in poi non ci saranno nuovi Pikachu.