Napoletano? Il dialetto più detestato d’Italia (a sorpresa, anche a Napoli)
- 08/05/2025
- Giovani Popolazione
C’è chi lo usa per sdrammatizzare, chi lo sfoggia con orgoglio alle feste di paese e chi lo rifugge come un’imbarazzante reliquia del passato. Il dialetto, in Italia, è più di una semplice variante linguistica: è una carta d’identità orale, un tratto distintivo, a volte un marchio di fabbrica. Ma non tutti i dialetti riscuotono lo stesso successo. Anzi, alcuni sembrano proprio non andare giù.
Secondo un sondaggio condotto da Preply, piattaforma per l’apprendimento linguistico, il napoletano risulta essere il dialetto meno apprezzato dagli italiani, seguito dal sardo e dal siciliano. Una classifica che fa discutere, soprattutto perché – sorpresa! – anche nelle città dove questi dialetti sono nati e cresciuti, non sempre godono del favore dei residenti.
Questa rilevazione, oltre a fotografare le preferenze linguistiche degli italiani, apre un dibattito più ampio sul ruolo dei dialetti nella società contemporanea. Tra orgoglio regionale, stereotipi radicati e nuove sensibilità culturali, la lingua cambia, si adatta, si reinventa, ma resta sempre un potente strumento di identità. E di divisione.
Il più amato e il più odiato: il caso (quasi) unico del dialetto napoletano
Il napoletano non è solo un dialetto: è un universo culturale, uno spartito musicale, una lingua dell’anima per milioni di persone. Eppure, secondo il sondaggio Preply, è anche il più detestato d’Italia. Ben il 22,8% degli intervistati ha indicato il napoletano come il dialetto meno gradito, e il dato fa ancora più rumore se si considera che persino a Napoli, un quarto degli intervistati ammette di non amare la parlata partenopea.
Un paradosso solo apparente. Da un lato c’è il fascino del napoletano “nobile”, quello delle canzoni classiche, di Totò e Eduardo De Filippo. Dall’altro, il napoletano “urlato” dei social, delle fiction e dei meme, che a qualcuno può risultare invadente. Inoltre, tra i giovani tra i 18 e i 24 anni, il dialetto napoletano sembra perdere appeal: è proprio questa fascia a bocciare più frequentemente la parlata locale. Diversa invece la percezione tra gli over 55, che sembrano più legati alla tradizione: solo uno su cinque esprime un giudizio negativo.
Il dato evidenzia anche uno spaccato generazionale: i più giovani tendono ad abbandonare il dialetto in favore di un italiano standardizzato, percepito come più “internazionale” e funzionale. E allora, se da un lato i linguisti si strappano i capelli per la perdita della varietà linguistica, dall’altro cresce una sottile insofferenza per i dialetti più “ingombranti”.
Le lingue delle isole
Chi pensa che la lingua unisca, non ha mai ascoltato un sardo parlare con un siciliano. Non si capiscono neanche tra loro – e probabilmente è questo il bello. Il sardo e il siciliano, però, nella classifica dell’impopolarità, occupano rispettivamente il secondo (11,4%) e terzo posto (10,5%).
Il sardo, vera e propria lingua neolatina, ricca di sonorità arcaiche, trova poco apprezzamento anche tra i suoi stessi parlanti: a Cagliari, capitale dell’isola, il 16% degli abitanti ammette di non gradirlo. E il dato peggiora se si guarda alle reazioni registrate a Milano, Firenze e Bari, dove il sardo viene vissuto come un idioma quasi “esotico”, lontano e difficile da decifrare.
Simile il destino del siciliano, la lingua di Pirandello e Camilleri, che pare aver perso il suo charme in molte città italiane. È tra i più impopolari a Roma, Trieste, Venezia, Reggio Calabria e nello stesso capoluogo insulare: a Palermo, infatti, quasi il 18% degli abitanti non lo apprezza.
Eppure, entrambe le lingue insulari sono riconosciute ufficialmente dalla Repubblica Italiana come “lingue storiche”, protette e valorizzate. Ma il riconoscimento istituzionale, evidentemente, non basta a conquistare il cuore (e l’orecchio) degli italiani.
Dialetto ‘rinnegato’ in casa
C’è qualcosa di sorprendentemente moderno nel fatto che un popolo rinunci – anche solo parzialmente – alla propria voce tradizionale. Eppure, succede. A Cagliari e Palermo l’autocritica linguistica è piuttosto evidente, ma non sono casi isolati. L’analisi di Preply mostra che in diverse città italiane il dialetto locale non gode di particolare popolarità.
È un piccolo campanello d’allarme per chi si occupa di cultura e linguistica, perché la lingua di un popolo è anche la sua memoria. Ma ci sono anche casi virtuosi: a Genova, ad esempio, non si registrano praticamente opinioni negative sul dialetto ligure. Una resistenza orgogliosa, che ha radici profonde nel legame tra i genovesi e il proprio passato marinaro. E a Bologna, solo il 6,3% dei cittadini rinnega la musicalità emiliano-romagnola, mentre ad Ancona la percentuale scende addirittura al 2,7%.
A fare la differenza, probabilmente, è anche l’immagine che il dialetto riesce a proiettare all’esterno: alcuni vengono percepiti come rozzi o sgraziati, altri come musicali, eleganti o addirittura “simpatetici”. Il toscano, per esempio, pur essendo alla base dell’italiano moderno, raccoglie comunque un 5,1% di giudizi negativi. Eppure, resta tra i più apprezzati, insieme all’emiliano e al ligure, forse anche per il legame con figure iconiche del cinema, della comicità e della letteratura — Dante in primis.
È proprio in questo scenario che la Giornata nazionale dei dialetti e delle lingue locali, celebrata ogni 17 gennaio, acquista nuova rilevanza. L’Unione Nazionale delle Pro Loco d’Italia ne approfitta per rilanciare l’appello a tutelare e valorizzare questi patrimoni immateriali, che non sono solo un’eredità culturale, ma anche strumenti di coesione sociale. Ne è esempio concreto la proposta di legge avanzata nel Lazio, volta a proteggere i dialetti regionali attraverso un approccio integrato di “welfare linguistico”, capace di rafforzare l’identità territoriale e trasmetterla alle generazioni future.
Da “scialla” a “cazzimma”
Oggi molti considerano i dialetti come “lingue vecchie”, buone solo per le nonne. Ma in realtà, i dialetti italiani sono lingue vive, che evolvono, si contaminano, si reinventano. Alcuni, come il napoletano e il siciliano, portano dentro tracce evidenti di spagnolo, retaggio dei secoli di dominazione iberica. Altri, come il veneto, si sono intrecciati con il tedesco, il friulano con lo sloveno. E non mancano nemmeno influenze arabe, francesi, greche.
Il risultato? Un mosaico linguistico straordinario, che rappresenta una delle principali ricchezze culturali del nostro Paese. Ma c’è di più: molti termini dialettali entrano nel linguaggio comune, talvolta senza che ce ne accorgiamo. Chi non ha mai detto “abbiocco” dopo pranzo o “scialla” per tranquillizzare un amico? E la leggendaria “cazzimma” napoletana? Sono parole che ormai fanno parte dell’italiano parlato, usate da giovani e meno giovani, anche molto lontano dalle regioni d’origine.
E se i dialetti italiani stanno perdendo terreno nell’uso quotidiano, sono sempre più oggetto di studio, rivalutazione, spettacolo. Esistono corsi, festival, podcast, canzoni trap e progetti educativi che riportano alla luce espressioni dimenticate o reinterpretano la parlata locale in chiave moderna.
Proprio per questo, la sfida non è solo quella di salvare i dialetti dalla dimenticanza, ma anche di difenderli da pregiudizi e stereotipi. In fondo, ogni dialetto è una lente attraverso cui osservare il mondo, un patrimonio di sfumature, gesti, suoni e visioni che merita di essere conosciuto e, sì, anche amato.