Che cosa è il cohousing intergenerazionale e che impatto avrebbe in Italia
- 06/06/2024
- Popolazione
“Se gioventù sapesse, se vecchiaia potesse!” diceva il lessicografo francese Henri Estienne. Ecco, il cohousing intergenerazionale aiuta i giovani a sapere e gli anziani a fare tante azioni, aiutati dalle nuove generazioni.
Si tratta di un modello abitativo sempre più popolare in diverse parti del mondo, che prevede la convivenza di persone di età diverse all’interno dello stesso complesso residenziale, favorendo la solidarietà e lo scambio intergenerazionale.
Ma in che cosa consiste esattamente questo fenomeno? E quali effetti avrebbe in un’Italia sempre più anziana e spesso luogo di conflitti culturali tra le generazioni?
Che cosa è il cohousing intergenerazionale
Il cohousing intergenerazionale combina abitazioni private con ampi spazi comuni, promuovendo la vita comunitaria e l’interazione tra i residenti. Ogni individuo o famiglia ha la propria unità abitativa, ma condivide con gli altri residenti aree come cucine, giardini, e spazi ricreativi.
Questo modello è progettato per incoraggiare il supporto reciproco e creare una rete di sostegno naturale tra persone di diverse età. L’idea di fondo è semplice: ognuno dà ciò che l’altro non può avere più (anziani) o non può ancora avere (giovani).
Realtà sempre più anziane come l’Italia e l’Unione europea non possono ignorare i benefici di questo meccanismo. Oltre all’abbattimento dei muri generazionali, il cohousing intergenerazionale consente di inquadrare gli anziani come delle risorse e non semplicemente come un macigno per il welfare. Un vivace esempio in tal senso arriva dall’isola di OAkinawa, dove l’età media è 13 anni più alta di quella mondiale e gli anziani sono coinvolti attivamente nella società.
Esempi di cohousing
Un esempio emblematico di co-housing intergenerazionale si trova a Deventer, nei Paesi Bassi. Qui, il progetto “Humanitas” ha ricevuto attenzione internazionale per il suo approccio innovativo: gli studenti universitari vivono gratuitamente in una casa di riposo per anziani in cambio di 30 ore al mese di volontariato con i residenti anziani.
In questo modo si è ridotto l’isolamento sociale tra gli anziani e contemporaneamente si è fornito fornire agli studenti un alloggio a costo zero. Questo aspetto si intreccia un altro grave problema che grave sulle spalle dei giovani, ovvero il caro-affitti, soprattutto nelle grandi città. Vale la pena ricordarselo quando si sottolinea che i giovani italiani lasciano casa sempre più tardi rispetto agli altri europei.
In Italia, ci sono esperienze di co-housing intergenerazionale come il “Villaggio Barona” a Milano. Qui, anziani, giovani coppie e famiglie convivono e condividono spazi comuni, creando una comunità coesa e solidale. Molti residenti riferiscono un aumento del benessere e una maggiore sensazione di sicurezza grazie al supporto reciproco.
Anche in seno alle istituzioni dell’Unione europea, si parla sempre di più di co-housing. Emblematica è la struttura che sorge a Bruxelles, cofinanziato dal Fondo Europeo di Sviluppo Regionale, attraverso l’iniziativa Urban Innovative Actions che promuove progetti di sviluppo urbano sostenibile. Si tratta dell’esperienza Calico che sta per ‘CAre and LIving in COmmunity’, un cohousing di 34 appartamenti in sintonia con il quartiere in cui è inserito grazie alla presenza di un ‘giardino di comunità’.
I pilastri del progetto sono la cura reciproca, che nasce dall’ampia diversità degli abitanti sia sociale che generazionale, e la possibilità di accesso ad un alloggio di qualità nella cornice di un Community Land Trust. Alcuni elementi caratterizzano l’iniziativa Calico: l’apertura trasversale a tutte le generazioni e i servizi dedicati all’accompagnamento delle famiglie alle nuove nascite e ai bisogni specifici dei più anziani.
Perché serve all’Italia
Si parta dagli ultimi strumenti visti a Bruxelles per capire l’enorme potenziale che il co-housing intergenerazionale ha nel contesto demografico del Belpaese.
Oggi, quasi un italiano su quattro ha almeno 65 anni (24,3%) ed entro il 2050 saranno un terzo della popolazione. Nel 2023 l’Italia ha registrato il record negativo di nascite, con soli 379 mila bambini, confermando un trend in atto dal 2013.
Il numero medio di figli per donna è sceso a un nuovo minimo storico di 1,20 nel 2023, avvicinandosi al minimo di 1,19 figli registrato nel 1995. La denatalità italiana, infatti, dipende in gran parte da quanto successo nel secolo scorso e dal cosiddetto effetto struttura che ha creato i presupposti per la crisi demografica attuale (per approfondire, leggi l’articolo: “Calano ancora le nascite, ma l’inverno demografico dell’Italia arriva da lontano”).
Lungo la penisola, a ogni bambino sotto i 10 anni corrisponde più di un ultraottantenne. Con 4 milioni 554mila individui, quasi 50mila in più, questa fascia di età ha persino superato quella degli under 10, pari a 4 milioni 441mila persone. Un calo vistoso rispetto al 2,5:1 di soli venticinque anni fa e al 9:1 di cinquanta anni fa.
Allo stesso tempo, la fascia 15-64 anni, quella lavorativamente attiva, è calata da 37 milioni 472mila (63,5% della popolazione totale) a 37 milioni 447mila (63,5%). Stessa sorte per i giovanissimi fino a 14 anni, passati da 7 milioni 344mila (12,4%) a 7 milioni 185mila (12,2%).
Con questi numeri, e complice l’allungamento dell’aspettativa di vita, l’età media italiana è arrivata a 46,6 anni. Analogo discorso, seppure in proporzioni ridotti, avviene nel resto dell’Europa che rischia di essere il “Vecchio Continente” non solo per cause geologiche.
Numeri eclatanti, che forse non andrebbero interpretati solo come una sfida. Le politiche per invertire le tendenze demografiche, se hanno successo, producono effetti dopo molti anni, spesso almeno un decennio. Il tutto senza considerare il problema del lavoro povero in Italia, molto diffuso tra i giovani.
Un’economia come l’Italia non può aspettare che le politiche demografiche (forse) diano i loro frutti, ma deve fare di necessità virtù, intercettando anche le opportunità che vengono offerte, a partire dalla Silver Economy.
Il co-housing intergenerazionale va in questa direzione. Promuovendo la coabitazione tra giovani e anziani, si può ridurre l’isolamento sociale degli anziani, creare una rete di supporto mutuo, e ridurre i costi abitativi per i giovani, incentivando al contempo lo scambio di conoscenze e competenze tra le generazioni. Più che al modello “separatista” cinese che ha dato forma a Guangdong, un villaggio dedicato esclusivamente agli anziani, la nostra cultura è più incline ai modelli inclusivi e di collaborazione. E anche l’economia ne gioverebbe.
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