Non vuoi lavorare? In Inghilterra ci sono le ‘giornate del piumone’
- 27/02/2024
- Mondo
“Ciao capo, oggi non ho proprio voglia di venire al lavoro”, “Ok, tranquillo, resta nel tuo piumone”. A dispetto delle attese, questa conversazione non è proprio frutto della fantasia, ma descrive quanto avviene in Inghilterra con i duvet days, letteralmente “le giornate del piumone” che consentono ai dipendenti di non lavorare per svariati motivi, senza prendere malattia o permesso.
Come funzionano i duvet days
I duvet days sono giornate di stop dal lavoro che alcune aziende inglesi concedono ai propri dipendenti perché possano rifugiarsi dallo stress e prendersi cura di sé. Un duvet day è, quindi, una giornata dedicata al tempo libero, al benessere o alla salute mentale, lontano dal lavoro senza alcun obbligo di preavviso.
Il desiderio, sempre più crescente, di avere più spazio per la propria vita privata, potrebbe far ipotizzare che “le giornate del piumone” siano un’iniziativa recente. Invece, i duvet days esistono in Gran Bretagna almeno dal 1997 e in alcune aziende i dipendenti sono incoraggiati a prendersi una “giornata del piumone” una volta per trimestre. I duvet days non sono una misura obbligatoria, ma uno strumento di welfare aziendale che alcune aziende d’Oltremanica riconoscono ai propri dipendenti.
Di solito, i lavoratori usufruiscono di questo strumento dopo un periodo di lavoro particolarmente stressante, ma può essere utilizzato anche per ragioni più semplici. È una bellissima giornata, il dipendente non ha scadenze ingombranti e non ha proprio voglia di lavorare, nessun problema: chiama il datore di lavoro e dice che si prende un duvet day, senza necessità di dare (o inventare) spiegazioni.
I vantaggi delle “giornate del piumone”
Prima dei duvet days, i lavoratori erano costretti a inventare qualche strana scusa per non recarsi al lavoro. In alternativa, andavano al lavoro controvoglia e con una scarsissima produttività. Questa situazione finiva per peggiorare il rapporto tra lavoratore e azienda, come effettivamente avviene da questa parte della manica e nelle aziende dove i duvet days non esistono.
Dunque, oltre ai vantaggi immediati (relax e maggiore produttività), “le giornate del piumone” hanno il vantaggio di migliorare il rapporto di fiducia tra lavoratore e azienda e avvicinare le due parti sociali. La giornalista di Metro Uk Almara Abgarian ha intervistato sei datori di lavoro sulle ragioni per cui hanno introdotto i giorni del piumone, sul tasso di successo e sulle loro previsioni su questo strumento di welfare. Le testimonianze sono tutte positive: “Il settore digitale è competitivo, quindi, desideriamo introdurre vantaggi per i dipendenti che ci aiutino ad attrarre e trattenere il personale più talentuoso. La possibilità di usufruire dei duvet days anche all’ultimo minuto significa che i dipendenti hanno la flessibilità di rimanere a casa quando si sentono stanchi, o il tempo è brutto o ci sono, per esempio, scioperi dei mezzi di trasporto.
Insomma, – spiega Tracy Nolan, direttrice creativa dell’agenzia di marketing digitale Glass Digital – le ragioni possono essere le più svariate, ma il diritto a stare a casa è uguale. Finora il personale ha tratto un concreto vantaggio da questa politica e abbiamo ricevuto molti feedback positivi senza alcun impatto sulla produttività. I desideri e le esigenze della nostra forza lavoro sono fortemente incentrati sui millennial, quindi, siamo nella posizione privilegiata per poter introdurre politiche come questa”.
Bisogna inoltre considerare che nel Regno Unito non esiste alcuna distinzione tra l’assenza per un motivo fisico e quella per un problema di salute mentale: l’indennità di malattia viene corrisposta esattamente allo stesso modo.
Cosa non sono i duvet days
È fondamentale distinguere i duvet days da altri fenomeni che sono negativi per la salute delle persone: il bed rotting e il goblin mode.
Il bed rotting (letteralmente “marcire a letto”), è un’iniziativa del tutto personale che chiunque può prendere e che consiste nel trasformare la propria giornata in 24 ore di ozio assoluto, fatto di attività del tutto passive, come guardare le serie tv o lo smartphone, senza alzarsi mai dal letto. Spesso, ad accentuare la tossicità di questo quadretto si aggiunge del cibo spazzatura sempre a disposizione che aggrava il problema, già preoccupante, dell’obesità.
Marcire a letto si accompagna ad un altro trend esploso nel 2022: il goblin mode, ovvero la “modalità goblin”. La scelta del termine rimanda alla creatura piccola e grottesca ben nota agli appassionati de “Il signore degli anelli” ed “Harry Potter”. Il goblin è una figura ampiamente utilizzata nella cultura europea, seppure con diversi significati e sfumature.
Tra tutte, quella che più rileva nell’analisi di questo fenomeno è quella che vede il goblin come uno spirito domestico dispettoso.
Non deve essere simpatico, infatti, passare la giornata a letto guardando serie tv, magari in mute mentre si scrollano i social media, ancora una volta in compagnia di cibo spazzatura.
Se non altro, il goblin mode dovrebbe mettere in allerta le istituzioni sugli stati depressivi che, dopo la pandemia, sono sempre più diffusi tra i giovani.
Ecco: i duvet days non c’entrano niente con tutto questo, anzi promuovono un’idea sana del proprio tempo e del proprio ruolo nella società. Il lavoratore, infatti, non si sente parte di un meccanismo che egli stesso ripudia, bensì libero di esprimersi con la propria azienda, sapendo che sarà ascoltato.
Allarme burnout
Time 4 Sleep, tra le principali aziende inglesi per la vendita di letti, materassi, comodini e simili, ha svolto un’indagine sulle motivazioni che spingono i lavoratori a usufruire dei duvet days. I principali motivi sono stanchezza, ansia e stress non necessariamente legati al proprio lavoro. Più nello specifico, il 61% degli oltre mille intervistati, ha dichiarato di essersi preso una giornata di riposo per rifiatare dopo un programma di lavoro frenetico e intenso.
D’altronde, i dati parlano chiaro: circa 1 lavoratore su 5 accusa sintomi di eccessivo stress lavorativo, tanto che l’Oms ha riconosciuto il burnout come una condizione medica associata a stress cronico sul lavoro non adeguatamente gestito, inserendolo nella classificazione internazionale delle malattie.
Questo fenomeno colpisce in modo più significativo dipendenti di aziende più piccole, che non ricoprono posizioni manageriali e i lavoratori più giovani. In particolare, l’80% di dipendenti appartenenti a Gen Z e Millennial sarebbe pronto a lasciare il lavoro, a causa di una cultura aziendale tossica.
Le frequenti dimissioni dei giovani rappresentano per il 60% dei talent manager uno dei più grandi ostacoli per l’introduzione di nuove skill e per la crescita dell’impresa. Più in generale, evidenzia Cnbc, il calo della soddisfazione lavorativa registrato dal 2020 ad oggi potrebbe impattare sull’economia globale con una perdita di circa 8,8 trilioni di dollari in termini di produttività.
Insomma, lo stress sul luogo di lavoro è un problema che non colpisce solo i lavoratori, ma anche le aziende. Una riflessione che approfondiremo più avanti.
Come stanno i lavoratori italiani?
Lo scenario è particolarmente grave in Italia, nonostante la minore diffusione del burnout (16% contro il 20% globale). Infatti, come emerge da AXA Mind Health Report 2023, indagine condotta da Ipsos e realizzata su un campione di oltre 30 mila persone tra i 18 e i 74 anni in 16 Paesi del Mondo, l’Italia è ultima in Europa per il livello di benessere mentale.
Se si allarga lo sguardo al panorama globale, il Belpaese è insieme al Giappone, con cui condivide anche il più basso tasso di natalità al mondo, quello con la più bassa percentuale di pieno benessere mentale.
Nell’indagare il legame tra salute mentale generale e benessere professionale inteso come capacità di sentirsi concentrati, produttivi e focalizzati sugli obiettivi, emerge che solo il 15% del campione si dichiara altamente produttivo. Una percentuale allarmante, l’altra faccia della medaglia di un Paese che ha gli stipendi fermi al 1991. Nel 2023, in Italia, l’inflazione è aumentata il doppio dei salari in una situazione di incertezza che deteriora il rapporto tra lavoratore e azienda.
Se gli stipendi non aumentano, si propone di diminuire le ore lavorate, che, secondo diversi studi, non produrrebbe un significativo calo di produttività. Si tratta di una necessità sempre più avvertita dai lavoratori italiani, tanto che, su iniziativa del leader M5S Giuseppe Conte, la settimana corta è diventata una proposta di legge in Parlamento.
Anche la Cisl ha avanzato l’appello per introdurre in Italia la settimana di lavoro corta per rendere il lavoro più flessibile e sostenibile, dopo i risultati positivi ottenuti in Spagna e Uk.
La risposta delle istituzioni
Eppure, in Italia, le richieste dei lavoratori e gli interventi normativi sembrano viaggiare su binari paralleli: non solo si è lontanissimi dalla settimana corta, ma persino lo smart working ha subito un pesante ridimensionamento. Allo stato attuale, per i lavoratori italiani, lo smart working rappresenta la via più concreta per rendere il lavoro più sostenibile e in equilibrio con la propria vita privata.
Lo studio pubblicato nel 2022 col titolo “Il lavoro da remoto: le modalità attuative, gli strumenti e il punto di vista dei lavoratori”, condotto dall’Inapp, con il suo campione di oltre 45mila interviste, ha dimostrato che quasi la metà dei lavoratori, il 46%, vorrebbe continuare a svolgere la propria attività in modo agile almeno un giorno la settimana, e quasi 1 su 4 anche tre o più giorni a settimana.
Il mondo del lavoro sta cambiando e le aziende più visionarie stanno intervenendo in tal senso. Come visto, i principali protagonisti di questo cambiamento sono i giovani, alle prese con stipendi bassi e scarse prospettive future. Bisogna poi considerare la crisi demografica che fa aumentare l’età media dei lavoratori e diminuire la produttività, già bassissima lungo lo Stivale. A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, infatti, in Italia la crescita della produttività è stata di gran lunga inferiore rispetto ai Paesi del G7, segnando un divario massimo nel 2021 pari al 25,5%.
La scarsa produttività e la scarsa remunerazione del lavoro vivono in osmosi: salari troppo bassi non stimolano i lavoratori e la scarsa produttività ostacola l’aumento salariale. Ancora una volta, intervenire sugli stipendi è l’unica risposta solida sul lungo periodo e il welfare aziendale è l’unica risposta concreta a stretto giro.
Quanto costa alle aziende un lavoratore infelice
Nonostante la produttività così basse, spesso il mondo datoriale e le istituzioni italiane preferiscono non cambiare la situazione. Anzi, si teme che maggiori concessioni facciano calare ulteriormente la produttività dei lavoratori e, quindi, delle imprese.
Timori smentiti da più studi, tra cui quello condotto dal McKinsey Health Institute insieme a Business in the Community, dove si dimostra che il benessere dei lavoratori genera una maggiore produttività. Per esempio, nel Regno Unito il vantaggio in termini di Pil potrebbe oscillare tra 130 e 370 miliardi di sterline all’anno (6-17% del Pil). Insomma, con maggiore benessere al lavoro, ciascun dipendente può produrre da 4.000 a 12.000 sterline in più all’anno.
Non solo: Deloitte ha riferito nel 2020 che la cattiva salute mentale sul posto di lavoro è costata alle aziende in media ogni anno 1.652 sterline per dipendente del settore privato (circa 1.900 euro in base al tasso di cambio attuale). Un’altra perdita di redditività “nascosta” per le imprese.
Ben lontani dal relax e dal rassicurante tepore del piumone, nello Stivale misure come i duvet days sono lontani anni luce. Migliori condizioni di lavoro, di salario o di ore lavorate, una chimera.
Non diventare silenziose vittime di una macchina che va in retromarcia, invece di andare avanti, sarebbe già un punto di partenza per i lavoratori italiani.
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