Pericolo demografico per le università italiane: -21,2% di iscritti entro il 2041
- 02/04/2024
- Giovani
Il sistema universitario italiano è chiamato a fronteggiare il calo demografico e i suoi impatti sulla formazione e il lavoro dei giovani. A sostenerlo è l’ultimo report Mediobanca dedicato alle università italiane, alla competizione territoriale e alla sfida del calo della natalità. La previsione principale è che nel 2041 il minore introito da rette di frequenza per la riduzione degli iscritti sarà parà a 500 milioni di euro. Parliamo di 415 mila studenti in meno nei prossimi vent’anni, -21,2%.
A subire questo drastico calo sarà principalmente il Mezzogiorno, con flessioni superiori al 30% in Molise, Basilicata, Puglia e Sardegna che porteranno il Sud e le Isole a un calo complessivo del 27,6%. Nord e Centro Italia, però, non saranno privi di mutamenti. Si prevede, infatti, un calo di iscritti rispettivamente pari al 18,6% e 19,5%. Scopriamo insieme quali conseguenze può avere un mutamento demografico di questo tipo sul sistema economico e formativo delle università italiane.
Denatalità e università: quali conseguenze
Il calo demografico colpirà presto tutti i macrosettori del nostro Paese, compreso quello delle università. Il Sud Italia, nello specifico, ha vissuto una riduzione di iscritti già negli ultimi decenni. Tra le cause vi sono, innanzitutto, le condizioni delle infrastrutture: “Il tempo medio necessario per raggiungere la sede degli studi nel Mezzogiorno supera i 150 minuti, mentre la media italiana è di 88 minuti”, si legge nel report Mediobanca. Un’altra causa del calo di iscritti al Sud è dovuta alla modesta ricettività degli studentati universitari. Infatti, “si valuta essi offrano un posto ogni 9 studenti fuorisede, ma alcune stime portano un rapporto a 1:21”. Queste cause dimostrano il limitato investimento dell’Italia nell’educazione terziaria che non aiuta ad affrontare la sfida del calo demografico.
“Il nostro 1,5% in termini di spesa pubblica – continua Mediobanca – ci distacca dal 2,3% della Ue e dal 2,7 dell’Ocse. Lo Stato contribuisce alla spesa per la formazione universitaria per il 61% del totale, rispetto al 76% dell’Ue e al 67% dell’Ocse. La quota residua è per lo più sostenuta dalle famiglie con il 33% in Italia contro il 14% media Ue e il 22% dell’Ocse”.
Dalla ricerca, pubblicata alla fine di marzo, è inoltre emerso che i docenti universitari hanno un’età superiore alla media dell’Ue. Questo dato pone degli interrogativi sull’adeguatezza dell’offerta formativa delle università italiane. La composizione anagrafica del corpo docente vede una quota di under 40 anni pari al 15,1%. In Francia i professori under 40 sono il 30,5% e il Germania il 52,1%.
Genere e età del corpo docente
Il 56% del corpo docente ha almeno 50 anni, per un’età media pari a 51,1 anni che raggiunge il proprio massimo per i professori ordinari (58,2 anni). In tema di genere, il 41,3% del personale docente è femminile (41,6% negli atenei statali e 39,7% nei non statali), ma merita ricordare che tra i Rettori in carica nel 2022 la quota di donne cade al 12,1% (era il 7,5% nel 2012). Il personale tecnico-amministrativo appare invece in contrazione dal 2012, con una flessione dell’8,1%. La variazione compendia il ridimensionamento degli atenei statali (-10,8%) cui fanno da contraltare gli incrementi delle libere tradizionali (+11,9%) e il balzo delle telematiche (+131,3%). Il 64,4% del personale tecnico-amministrativo degli istituti statali ha almeno 50 anni e l’età media è cresciuta da 48,7 anni nel 2012 a 51,9 anni nel 2022, con picco di 55,8 anni per i ruoli dirigenziali. La quota femminile è pari al 60,8%.
La demografia universitaria
Un dato interessante all’interno del report è quello relativo al sistema universitario e alla sua offerta formativa: atenei statali (61) e non statali o liberi (31) si suddividono a loro volta in tradizionali (20) e telematici (11). Tutti gli atenei statali sono tradizionali.
Il primo dato che emerge è un aumento del 410% nell’ultimo decennio degli iscritti agli atenei telematici. Questo dimostra un forte incremento di chi predilige una formula mista o completamente digitale, complici la possibilità di abbattere i costi di viaggio e di abitazione eventuale nei pressi dell’università.
Poi, un lieve miglioramento si è visto nel 2022: il 77,2% degli iscritti risulta regolare o in corso, dato pari al 66,6% nel 2012. In effetti, le ultime coorti di studenti triennali evidenziano una crescente percentuale di laureati in corso: per gli immatricolati del 2017/18, essa ha toccato il 38%, al termine di una regolare crescita che partiva dal 27,3% della coorte 2011/12. Ma anche in questo caso il dato medio nasconde dinamiche differenziate e il 38% si assortisce per tipologia di ateneo e area geografica: tocca il 45,1% nel Nord Ovest, per scemare al 29,9% del Sud e al 27,3% delle Isole; si ferma al 37,8% per gli atenei tradizionali e sale al 44,8% per quelli telematici. Tuttavia, a sei anni dall’immatricolazione e sempre per le lauree triennali, risulta laureato il 63,7% degli immatricolati, con un tasso di ritardo o abbandono che appare ancora troppo elevato.
Mediamente, la laurea triennale viene conseguita a 24,4 anni, mentre attorno ai 27 anni si ottiene quella magistrale: l’età media di laurea è di 25,6 anni, anche in questo caso in calo dai 26,7 anni del 2012. La popolazione universitaria degli atenei tradizionali si è ringiovanita nell’ultimo decennio: la porzione di quella con età fino a 23 anni è cresciuta dal 61,9% del 2011/12 al 66, 4% del 2021/22. Anche il voto medio di laurea è migliorato: da 102,7/110 nel 2012 a 104/110 nel 2022.
Calo demografico e università telematiche: quale legame?
“Il successo dell’insegnamento a distanza deriva da molteplici fattori, in primis demografici – sostengono i ricercatori -. L’allungamento dell’età media, e con essa quella del pensionamento, comporta carriere lavorative più estese che a loro volta si confrontano con un contesto in cui le competenze professionali tendono a divenire precocemente obsolete e a convivere con percorsi lavorativi che possono subire repentini cambiamenti e richiedere interventi di re-skilling o up-skilling”.
La fotografia delle università telematiche manifesta un certo grado di resilienza a dei mutamenti di cui si iniziano già a vedere le conseguenze. Il 42,8% degli immatricolati alle università telematiche è residente nel Sud Italia. Nel complesso, gli iscritti hanno un’età media di 27,6 anni e provengono per il 45,2% da percorsi di laurea in atenei in presenza.
“Questi elementi segnano una parziale segregazione della domanda formativa formulata dai frequentanti delle telematiche, che esprimono esigenze didattiche che con più difficoltà riescono a soddisfare negli atenei tradizionali. Ma la situazione è in divenire: ad esempio, l’età media degli iscritti alle telematiche era di 35,2 anni un decennio fa, con parziale convergenza verso i profili degli studenti ‘tradizionali’. Inoltre, il calo demografico (e di iscritti) impone agli atenei in presenza di intercettare le richieste legate alle nuove esigenze formative: se è vero che il 94% di tutti i corsi offerti resta fruibile solo in presenza, i corsi accessibili integralmente online rappresentano il 4% del totale, di cui il 3% ad opera degli atenei telematici. Il residuo 2% dell’offerta si configura in modalità mista ad opera delle università tradizionali. Sommando la modalità puramente digitale e quella mista degli atenei tradizionali, la loro offerta ‘non tradizionale’ è nei fatti equivalente a quella degli atenei telematici”, conclude Mediobanca.
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