Perché Elisabetta Franchi assume solo donne over 40
Betty Blue spa è la società chiamata a risarcire di 5mila euro l’Associazione nazionale lotta alle discriminazioni per le frasi pronunciate dalla sua proprietaria, Elisabetta Franchi. A deciderlo è stato il Tribunale del lavoro di Busto Arsizio. Le frasi pronunciate il 4 maggio 2022, durante l’evento ‘Donna e moda’, avevano preoccupato molti. La famosa stilista aveva affermato di assumere uomini di qualsiasi età e le donne over 40. Perché? Perché “se dovevano sposarsi, si sono già sposate, se dovevano far figli, li hanno già fatti, se dovevano separarsi hanno fatto anche quello e quindi diciamo che io le prendo che hanno fatto tutti i quattro giri di boa” spiegò Franchi. “Sono lì belle tranquille – disse la stilista – con me a mio fianco e lavorano h24, questo è importante”.
Elisabetta Franchi fu già “condannata” sui social ai tempi; ieri anche dal tribunale a firma della giudice del lavoro Francesca La Russa che ha definito il “carattere discriminatorio” delle affermazioni. Ora dovrà “promuovere” un “consapevole abbandono dei pregiudizi di età, genere, carichi e impegni familiari nelle fasi di selezione del personale per le posizioni di vertice” adottando “entro sei mesi” un “piano di formazione aziendale sulle politiche discriminatorie che preveda la realizzazione di corsi annuali, con l’intervento di esperti, ai quali siano chiamati a partecipare, obbligatoriamente, tutti i dipendenti”.
Ma perché Elisabetta Franchi assumerebbe solo donne over 40? Scopriamolo insieme.
Quando “expertise” è un prerequisito, ma solo delle donne
Sono a metà tra la Generazione X e quella dei Millenials, hanno intorno ai 40 anni e si presume abbiano più esperienza rispetto ai giovani e maggiore vitalità rispetto ai più anziani. Sono per lo più donne e sono quelle che devono dimostrare di avere il giusto “expertise” per essere promosse a ruoli dirigenziali. Il ricambio generazionale c’è, ma l’età media dei dirigenti d’azienda italiani è comunque alta, si stima intorno ai 50 anni. Sono principalmente uomini, perché a parità di competenze si predilige chi si presume non debba prendersi cura della casa, della famiglia, di un anziano non autosufficiente. Si punta, cioè, su chi costa meno: sul “cavallo vincente”.
Nell’Unione europea risulta occupato l’80% della popolazione maschile in età lavorativa, contro il 69,3% di quella femminile. In Italia, invece il tasso di occupazione (15-64 anni) è pari al 69,2% per gli uomini e al 51,1% per le donne, quindi con un gap di 18,1 punti percentuali.
E solo i 40 anni, infatti, per le donne rappresentano quell’età dove “ciò che doveva essere fatto è stato già compiuto”. Un figlio? Si presume tu l’abbia avuto prima, anche se l’età media in cui le donne hanno il primo figlio cresce ogni anno (circa 30 anni). Comprare una casa? Si presume sia già stato fatto, anche se la media italiana è 43,7 anni. Aiutare in famiglia? Forse meno, anche se la longevità costringe principalmente le donne a farsi carico della cura di persone, quali i genitori, che vivono in media in Italia oltre gli ottant’anni. E per questo, l’indipendenza e autonomia – che forse intendeva la stilista in un’interpretazione che le concede il beneficio del dubbio – è quella che si dà per scontato le donne debbano avere, solo in Italia, solo nelle grandi aziende, e sempre e solo raggiunta quell’età. Ma perché?
Una questione generazionale?
Una prima spiegazione si può ricercare in uno studio condotto da Valore D secondo il quale, giovani e meno giovani hanno aspettative diverse, richieste diverse e modi di comportarsi diversi, nel mondo del lavoro. I primi, cercano un equilibrio con la loro vita privata, non rinunciano al tempo libero e l’esperienza del Covid-19 gli ha insegnato a prendersi più cura di sé stessi. I dati della survey hanno mostrato come un contesto aziendale ricettivo caratterizzato da una maggiore consapevolezza dei bisogni degli individui di diversa età abbia fatto emergere le grandi divergenze. Gli specialisti Hr e Dei hanno messo in discussione il concetto di “talento” come sinonimo di età. Favoriscono, perlopiù, caratteristiche quali l’entusiasmo, la curiosità, la capacità di adattamento, la reattività, la buona volontà: tutte caratteristiche senza limiti anagrafici. Le aziende sono quindi chiamate ad ampliare il target di partecipazione a iniziative di talent development a tutta la popolazione aziendale in modo da valorizzare tutte le generazioni. (Quello che sarà costretta a fare Elisabetta Franchi, per l’appunto).
Inoltre, è emerso che la voglia di migliorare le proprie competenze accomuna tutte le generazioni ed emerge soprattutto nella Generazione Z. Quest’ultima, infatti, è risultata più ambiziosa e desiderosa di apprendere, di ottenere una crescita personale e aziendale (molto importante per l’80%). Acquisire nuove competenze (reskilling) è una richiesta sentita anche da un Baby Boomer su tre, consapevoli dell’importanza di apprendere nuove skill in ambiti lavorativi diversi da quelli ricoperti al momento, per essere pronti alle richieste di un mercato del lavoro che cambia, ma forse non quello dell’azienda della stilista.
L’importanza della formazione
È necessario “riprogrammare tutto il nostro percorso di accompagnamento dalla formazione al lavoro. In questo momento anche su questo fronte i dati sono estremamente interessanti per quanto riguarda i percorsi di formazione professionale, quindi i canali della formazione che si avvicina sempre di più al lavoro. I dati del duale ci dicono che questa esperienza sta diventando sempre più importante in termini numerici. Le famiglie finalmente ci credono e nell’arco dell’ultimo anno abbiamo avuto un aumento dei ragazzi iscritti al percorso duale del 160%, e al Sud del 340%. Vuol dire che finalmente viene compreso anche quanto sia importante legare la formazione, quella ovviamente tradizionale, quella formale, allo sbocco lavorativo”. A sottolinearlo è stata la ministra del Lavoro e delle politiche sociali, Marina Calderone, in una video intervista all’evento Adnkronos ‘Le competenze, un punto fermo’, negli scorsi giorni al Palazzo dell’Informazione a Roma.
In sintesi, potremmo riassumere il concetto così: sulla formazione ci si sta lavorando, forse ancora troppo poco, e spesso la si considera una pratica onerosa in termini di tempo e denaro. Supportare i giovani è divenuto uno slogan che poche realtà aziendali riescono a mettere in pratica e a parità di studi, si stima siano le donne ad essere però, sempre più spesso penalizzate. Una su cinque è costretta a lasciare il lavoro in caso di maternità, il 42,6% delle mamme tra i 25 e i 54 anni non è occupata e il 39,2% delle donne con 2 o più figli minori è in contratto part-time. Ecco perché la stilista fa bene ad assumere solo donne over 40, perché la rispecchia una mentalità molto italiana che avalla ambienti tossici nei quali si dà valore a chi raggiunge obiettivi, nel minor tempo possibile, rinunciando alla sua vita.
Il rischio? Burn out
Il 28,3% di coloro che si sono rivolti a Unobravo nell’ultimo anno, in cerca di supporto, ha dichiarato di avere delle difficoltà proprio sul fronte professionale. Di questi, più della metà (57,3%) ha manifestato una sofferenza generata dal lavoro e il 10% attribuisce all’ambito lavorativo le principali complicazioni che si trova ad affrontare nella quotidianità. Il malessere psicologico derivato dal lavoro, infatti, può avere un forte impatto sulla vita personale, portando anche a sintomi fisici che, se non trattati, possono sfociare in una condizione di forte stress e nella sindrome di burnout. Sindrome che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) non si tratta di una malattia, ma di una condizione medica di disagio lavorativo.
Una sentenza della Cassazione Civile del 19 gennaio 2024 (n. 2084), ha stabilito che il datore di lavoro è responsabile per i danni alla salute causati al dipendente da un ambiente lavorativo troppo stressante, anche in assenza di atti qualificabili come mobbing. Per il momento, quindi, la stilista sarà costretta a risarcire per le sue dichiarazioni, un domani potrebbe dover dare spiegazioni alle sue stesse dipendenti.
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