“Una generazione fatta solo di bulli e di maranza”? Il Giubileo dei Giovani racconta altro
- 4 Agosto 2025
- Giovani
Un milione di giovani ha invaso pacificamente Roma per il Giubileo. Provenivano da oltre cento Paesi, molti con zaini, sacchi a pelo, bandiere e simboli religiosi. Per giorni hanno attraversato la città in cortei ordinati, pregato nelle piazze, ascoltato catechesi, cantato fino a notte. Tutto questo mentre la cronaca nazionale continuava a rincorrere i soliti copioni: atti vandalici, microcriminalità, disagio. La discrepanza non è passata inosservata.
Le immagini di Tor Vergata, con una distesa di ragazzi raccolti attorno a Papa Leone XIV, hanno avuto una certa eco visiva. Ma il racconto pubblico è rimasto in superficie, come se non sapesse cosa farsene. Il ministro per la Famiglia Eugenia Roccella ha messo il dito nella piaga con un post: “Smentiscono la narrazione omologante di una generazione fatta solo di bulli e di maranza”. Una presenza reale, concreta, difficile da ignorare nei numeri, ma che trova poco spazio nelle letture prevalenti.
Il punto sollevato da Roccella non è solo politico, è un nodo culturale: c’è una generazione che cerca senso, legami, trascendenza, ma non corrisponde ai modelli di rottura o trasgressione che normalmente attirano attenzione. E allora viene archiviata. “Non c’è qualcuno che voglia davvero vederli”, ha scritto ancora la ministra, parlando di una maggioranza silenziata. Un termine forte, ma che rende bene il paradosso: questi giovani esistono, ma non fanno notizia.
Non si tratta di folklore religioso. Le cifre logistiche e la mobilitazione internazionale parlano di un evento costruito nel tempo, preparato dalle diocesi, supportato da migliaia di volontari, con momenti di preghiera collettiva, confessioni, riflessioni guidate. È un fenomeno di massa che sfugge ai codici consueti della rappresentazione giovanile. Né protesta né consumo, né scontro né spettacolo.
Eppure, qualcosa si è mosso. Le dirette in streaming delle messe, le testimonianze condivise dai partecipanti, la quantità di contenuti generati dai ragazzi stessi sui social mostrano una vivacità che non si lascia ridurre alla sola dimensione religiosa. È anche una forma di aggregazione, di ricerca di appartenenza, di confronto con domande radicali: cosa vale? Dove si va? Chi si vuole diventare?
Una generazione diversa da quella che viene raccontata più spesso. Non necessariamente “contro”, ma fuori dal frame. E forse proprio per questo, ancora da decifrare.
Cosa cercano i giovani che hanno riempito Tor Vergata
Non sono arrivati a Roma per abitudine né per dovere. Non li ha mossi un automatismo religioso o un’identità di bandiera. La maggior parte dei giovani che ha scelto di partecipare al Giubileo – e di restare a Tor Vergata per ore sotto il sole, pregando o in silenzio – lo ha fatto per una ragione che non si esaurisce nell’appartenenza ecclesiale: cercano qualcosa, e molti di loro sanno perfettamente che nessuna risposta pronta è sufficiente.
Il Papa, nel suo discorso più diretto, ha messo a fuoco il punto: “Sentiamo una sete grande e bruciante, che nessuna bevanda di questo mondo può estinguere”. È una frase che non presuppone il possesso della verità, ma riconosce il bisogno di senso come dato di partenza. E qui non si parla solo di religione: si parla di ciò che spinge un ragazzo o una ragazza del 2025 a chiedere di più alla vita, oltre la carriera, il consumo, l’intrattenimento permanente.
Molti giovani presenti al Giubileo hanno raccontato di vivere la fede non come eredità passiva, ma come scelta consapevole. In un tempo che tende a sospendere ogni decisione, a tenere tutto reversibile e provvisorio, decidere di essere cristiani – senza arroganza né difensiva – è un atto che sorprende. Non lo fanno per ribellione, ma per convinzione. Cercano relazioni che non siano filtrate dai social, parole che non evaporino in 24 ore, esperienze che durino più di una storia su Instagram.
Il Papa lo ha detto senza infiorature: “Comprare, ammassare, consumare, non basta”. Una frase scomoda da pronunciare davanti a una generazione spesso descritta come iperconnessa e dipendente dal desiderio istantaneo. Ma nessuno si è offeso. Perché la consapevolezza c’è. Molti di questi ragazzi si muovono proprio a partire da un disagio verso la superficie continua a cui li inchioda il presente.
Non tutti sono praticanti regolari. Non tutti appartengono a gruppi o movimenti. Ma quasi tutti – a sentire le loro parole e le loro condivisioni – sono partiti da una domanda: è tutto qui? E questa domanda li ha portati a confrontarsi con qualcosa che il linguaggio della contemporaneità spesso rimuove: il desiderio di una pienezza che non si misura in obiettivi raggiunti.
“Non siamo malati, siamo vivi”, ha detto Leone XIV, citando Papa Francesco. È una dichiarazione che molti hanno accolto con un sollievo evidente. Perché parlare di inquietudine, di incompletezza, di sete, in un contesto pubblico, oggi è raro. E quando accade, genera risonanza. Non è un linguaggio fuori tempo: è un linguaggio rimosso, che torna a farsi ascoltare solo in contesti come questo.
Chi erano, allora, i giovani di Tor Vergata? Non un blocco monolitico. Ma una generazione frammentata che, per una volta, si è ritrovata attorno a un centro stabile. Una comunità provvisoria, ma reale. Un raduno che non ha cercato di anestetizzare l’inquietudine, ma di offrirle un orizzonte. E in un’epoca in cui ogni legame sembra provvisorio, questo è già qualcosa di più di una semplice esperienza religiosa. È una proposta esistenziale.
Una generazione in cerca di scelte stabili
Per parlare di libertà a una generazione cresciuta nella cultura della reversibilità, il Papa ha scelto un lessico senza scorciatoie: scegliere non è solo un diritto, è un rischio. E soprattutto, non riguarda solo il cosa, ma il chi. “Quando scegliamo, in senso forte, decidiamo chi vogliamo diventare”, ha detto Leone XIV. Il messaggio non è nuovo, ma è la radicalità con cui viene rilanciato a renderlo controcorrente.
Di fronte a centinaia di migliaia di giovani riuniti a Tor Vergata, il Pontefice ha ribaltato l’immaginario dominante: non è libero chi lascia tutto aperto. È libero chi assume una direzione e la percorre. “Per essere liberi occorre partire da un fondamento stabile”, ha spiegato. “Questa roccia è un amore che ci precede e ci supera infinitamente: l’amore di Dio”. Il riferimento alla fede non annulla la portata antropologica del discorso: si tratta di uscire dall’indecisione cronica, dallo stallo esistenziale mascherato da possibilità infinita.
Il punto, per molti dei giovani presenti, è proprio questo. In un mondo in cui tutto è modificabile, posticipabile, rimandabile, c’è un crescente bisogno di solidità. Scelte che abbiano peso, legami che durino, orizzonti che non si spostino al primo scossone. Non per nostalgia del passato, ma per una reale esigenza di senso. Le testimonianze raccolte nei giorni del Giubileo confermano un dato: sempre più ragazzi cercano un modo per sottrarsi alla cultura del provvisorio. E la proposta della Chiesa – almeno in questa forma – viene letta da molti non come imposizione, ma come alternativa praticabile.
Il Papa ha usato parole chiare anche sulle scelte vocazionali: matrimonio, vita consacrata, sacerdozio. Non come categorie da difendere, ma come forme possibili di realizzazione personale, piena, non ripiegata su sé. “Queste scelte danno senso alla nostra vita, trasformandola a immagine dell’Amore perfetto”, ha detto. Lo ha fatto ricordando due giovani morti nei giorni del Giubileo, Maria e Pascal, e un ragazzo ricoverato al Bambino Gesù, Ignazio. La vita, ha ricordato, è fragile. Ma proprio per questo va orientata, non lasciata alla deriva.
Parlare di matrimonio o di consacrazione religiosa a ragazzi tra i 17 e i 25 anni può sembrare fuori tempo. Ma in questo contesto, non ha avuto l’effetto di un appello d’altri tempi. Al contrario. Le reazioni – ascolto, silenzi attenti, applausi convinti – dicono che il bisogno di direzioni forti non è scomparso. È solo stato sommerso da un discorso pubblico che teme di proporre senza imporre.
Il riferimento ai santi “prossimi” – Pier Giorgio Frassati, Carlo Acutis – ha reso il discorso ancora più concreto. Giovani come loro, ha detto il Papa, hanno mostrato che “donare la vita per gli altri” è ciò che rende felici. Una frase semplice, ma non retorica, perché pronunciata nel contesto di una generazione che vive spesso relazioni interrotte, precarietà affettiva, distanza emotiva.
La sfida è aperta: offrire ai giovani occasioni per prendere decisioni vere, che non siano simulacri o prove generali. Il Giubileo non ha risposto per loro. Ma ha posto la domanda in modo pubblico, collettivo, solido. Ed è già una rottura con lo schema abituale, dove tutto è fluido, tutto è possibile, ma nulla è davvero scelto.
Il digitale tra connessioni e solitudini: il tema al centro del Giubileo
Tra i temi affrontati con più decisione durante il Giubileo dei giovani, uno ha colpito in modo trasversale: il rapporto tra cultura digitale, identità e relazioni. Papa Leone XIV ha scelto un linguaggio diretto, citando senza filtri i rischi legati all’uso distorto di social network e piattaforme online. Non per demonizzare, ma per mettere in discussione un’abitudine ormai radicata: la disponibilità a vivere legami filtrati, intermittenti, reversibili.
“Quando lo strumento domina sull’uomo, l’uomo diventa uno strumento”, ha detto, parlando del rischio che la persona si riduca a “merce”. È un passaggio cruciale. Perché tocca un punto concreto: l’identità, oggi, è spesso costruita per essere mostrata. E se non trova conferma nello sguardo dell’altro – attraverso un like, una reazione, una condivisione – fatica a reggere. Ma questa dinamica, che viene interiorizzata molto presto, logora i legami.
Il Papa ha citato la Christus Vivit, ammonendo sul fatto che “i meccanismi della comunicazione, della pubblicità e delle reti sociali possono essere utilizzati per farci diventare soggetti addormentati, dipendenti dal consumo”. Un rischio reale, che molti dei giovani presenti conoscono bene. Lo smartphone è parte integrante della loro quotidianità. Ma proprio per questo, sanno anche quanto possa diventare un filtro permanente tra sé e l’altro, tra ciò che si prova e ciò che si mostra.
Le testimonianze raccolte nei giorni del Giubileo confermano che la consapevolezza non manca. Molti ragazzi, pur vivendo immersi nel digitale, mostrano insofferenza verso l’isolamento emotivo che ne deriva. Sentono la mancanza di relazioni stabili, durature, fisiche. “Solo relazioni sincere e legami stabili fanno crescere storie di vita buona”, ha affermato il Papa. E in quel momento non si è alzata una polemica. Si è alzato un applauso.
La questione è culturale, non tecnologica. Per Papa Leone: “ogni cultura contiene sia parole nobili sia parole volgari, sia valori sia errori”. La sfida è distinguere, discernere, non aderire automaticamente a ciò che il sistema propone. La verità – ha ricordato – è un legame: unisce parole e cose, nomi e volti. La menzogna li separa, genera confusione, svuota i significati. Anche questo è un nodo esistenziale, non una teoria astratta.
In questo contesto, l’invito ai giovani non è a disconnettersi, ma a ricostruire i legami. Cercare relazioni che non si esauriscano in una notifica. Coltivare rapporti che reggano il peso del silenzio, della presenza, della distanza. Non è un appello nostalgico, ma una proposta realistica: chi ha partecipato al Giubileo ha sperimentato – anche solo per tre giorni – cosa significhi vivere insieme senza bisogno di mediazione continua. E per molti, è stato un sollievo.
Il rischio, ora, è che tutto questo si dissolva nel ritorno alla routine. Ma il Giubileo ha lasciato un segnale chiaro: esiste una generazione che non si accontenta di vivere frammentata. Non cerca una religione “adatta ai tempi”, ma una comunità che tenga. E che restituisca ai legami il loro valore originario: essere il luogo in cui la vita prende forma.