Denatalità, Billari (Bocconi): “Colpa dei giovani? Un modo per scaricare responsabilità”
- 09/04/2024
- Giovani
Ripartire dalle riforme scolastiche e non creare una cultura antimmigrazione. Questi i punti salienti sui quali Francesco Billari, rettore dell’Università Bocconi di Milano e docente di demografia al Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche ha posto l’accento, come possibili soluzioni al calo delle nascite. Perché in un Paese in cui non si nasce più il rischio è quello di crollare. Lo evidenzia con convinzione, spiegando che non si può, però, considerare l’inverno demografico come una realtà alla quale rassegnarsi: “Le soluzioni ci sono e vanno affrontate subito, perché domani è già oggi”.
Rettore, in Italia nascono sempre meno bambini e l’aspettativa di vita si è allungata, in sintesi potremmo dire che quasi non si nasce e quasi non si muore più e un Paese in cui non si nasce è destinato a morire?
“Forse, ma non è un destino scritto. Se non si nascesse più veramente saremmo destinati a morire. Ma la natalità dipende da quello che faremo da oggi in poi. Anche se il sentiero sembra predeterminato, non si può dire che sia troppo tardi.
Non possiamo, però, continuare a occuparci della natalità senza occuparci dei potenziali genitori. Così come il tema delle migrazioni è fondamentale, per un motivo tecnico: meno potenziali genitori da cinquant’anni e costanza nel basso numero di figli per coppia ci impongono un cambio di vedute. Dobbiamo lavorare sulle politiche familiari e sui giovani. Non possiamo inventare dei nuovi nati di trent’anni fa, ma possiamo aprire una programmazione e porre su questa la nostra attenzione”.
Uno strumento da lei proposto è l’utilizzo delle “lenti della demografia”. Come possono aiutare chi sembra miope davanti al problema della denatalità? Sono sufficienti i dati o serve un approccio multidisciplinare?
“L’uso delle “Lenti della demografia” è la mia impostazione generalista che utilizza questa disciplina per un approccio al futuro: università, giovani ed economia. Il paio di lenti è utile perché possiede una capacità intrinseca nella disciplina: i 15enni di oggi sono i 25enni di domani, questa è l’impostazione. Ma la mia ambizione è che tutti possano utilizzare la demografia per fare dei calcoli che necessitano ragionamenti. Questo non vuol dire che dobbiamo usare solo le lenti della demografia, ma parliamo di una disciplina vicina a tante altre e tutte utili, come la sociologia, le scienze politiche, la statistica. Le risposte alle sfide demografiche sono nel loro insieme. Alla bassa natalità non può rispondere solo una, ma per forza dovremo usarle tutte. Non c’è nessuna sfida che può essere affrontata solo da una disciplina o dai dati aridi e che io considero anche un po’ tristi. Non sono tra quelli che pensano che è seminando tristezza che si inviti all’azione. L’idea che non possiamo affrontare l’inverno demografico è grave”.
Perché, secondo lei, l’Italia è indietro sulle politiche dedicate alla famiglia rispetto a Paesi come Francia e Svezia? O non ha fatto ciò che ha fatto la Germania, con le immigrazioni? Non potremmo limitarci a prendere esempio e basta?
“Non c’è la pillola magica che curerà i problemi del nostro Paese. Quello che possiamo fare è prendere pezzi di esempi e imparare dagli altri, ma non solo da una singola politica. In questi Paesi ci sono ecosistemi diversi, ma alla base di tutti c’è l’essere favorevoli all’uguaglianza di genere, all’apertura e potenziamento degli asili nido, agli investimenti sull’occupazione giovanile. Quello che stiamo facendo noi oggi non basta. Due sono le questioni, a mio parere:
- Per molto tempo in Italia si è detto: “Gli Italiani amano la famiglia, perché dovremmo copiare le politiche degli individualisti svedesi?” Questa, ad esempio, è la rappresentazione di una visione ideologica che abbiamo sul tema, ma senza politiche stabili.
- Quando si è iniziato a parlare del calo delle nascite come un reale problema, la finanza pubblica era già compromessa. È fondamentale che intervenga, perciò, anche il welfare aziendale perché quello statale, da solo, non ha la possibilità di investire nelle famiglie”.
Ripartire dai giovani per supportarli nelle scelte del futuro è una chiave, ma è solo una questione di lavoro o è anche una scelta “culturale” quella di non mettere più al mondo dei figli?
“Non accetto che si dia la colpa ai giovani italiani perché non fanno figli, perché sono individualisti, sì, ma non più individualisti rispetto ad altri Paesi. È un facile modo per scaricare le responsabilità su delle idee culturali che non chiamano politiche.
L’Italia per decenni non si è occupata in modo adeguato della scuola. È tollerato un livello di uscita elevato e il sistema scolastico è costruito per un mondo che non esiste più. Oggi il destino di un adulto viene deciso a 13 anni, perché il sistema stesso pensa che si possa scegliere a quell’età. Così il 50% dei diplomati non ha conoscenze sufficienti e il risultato è che non si è preparata una generazione ad affrontare la vita e il mercato del lavoro. È tremendo dare agli adolescenti la colpa. Per questo propongo di aprire un “Dossier scuola”. Studiare gli altri Paesi è utile per smettere di continuare a guardare il nostro passato, ma rinnovare radicalmente il futuro”.
“Ieri, il domani non era oggi”. È questo il problema: non si è stati sufficientemente previdenti?
“Sì, penso che non siamo stati previdenti. Quando ce ne siamo accorti, abbiamo rinviato il problema ai giovani. C’è stata inerzia. Molte spese orientate all’oggi e non all’oggi che crea domani. Ma per scuola e famiglia si è speso sempre poco e adesso che abbiamo una “nave” demografica con un carico di anziani importante, non possiamo più aspettare. Non possiamo usare il dato di oggi per dire “siamo rovinati”, ma dobbiamo agire in modo creativo: coinvolgere tutti gli attori, istituzioni, aziende. Se aspettassimo oggi, tra 20 anni diremo ‘Non abbiamo agito neanche nel 2024’, quando il record negativo di nascite è già avvenuto nel 1995. Sono passati trent’anni e avremmo potuto pensarci prima”.
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