Maternità surrogata, l’Onu contro la ‘vendita di bambini’
La maternità surrogata è entrata nel mirino delle Nazioni Unite non come terreno di conflitto etico, ma come pratica intrinsecamente violenta. Reem Alsalem, Relatrice speciale Onu sulla violenza contro le donne e le ragazze, ha presentato all’Assemblea Generale un rapporto che non lascia margini interpretativi: “la pratica della surrogazione è caratterizzata da sfruttamento e violenza contro donne e bambini, incluse le bambine”.
Nel documento, Alsalem chiede agli Stati di adottare “uno strumento internazionale giuridicamente vincolante che ne proibisca ogni forma”. È la prima volta che un organismo dell’Onu prende posizione in maniera così netta. Non un invito a regolamentare, ma a proibire. La fotografia che emerge è quella di un’industria globale da miliardi di dollari che cresce sfruttando vulnerabilità economiche, in assenza di un quadro giuridico uniforme, e che scarica sui corpi femminili e sui bambini nati da surrogazione i costi reali del mercato.
Un’industria globale in espansione che concentra i profitti in alto e i rischi in basso
Il rapporto Onu fotografa un mercato in piena espansione. Nel 2023 il giro d’affari della maternità surrogata è stato valutato in 14,95 miliardi di dollari, con proiezioni che parlano di quasi 100 miliardi entro il 2033. Una crescita alimentata soprattutto dagli accordi transfrontalieri: coppie o individui provenienti da Paesi ad alto reddito si rivolgono a giurisdizioni dove la pratica è consentita o poco regolamentata.
Il dato cruciale è la distribuzione dei compensi. Alle donne surrogate resta soltanto tra il 10% e il 27,5% della cifra pattuita, mentre la quota maggiore finisce nelle mani di agenzie, cliniche e intermediari. A questo si aggiungono incentivi per chi recluta nuove candidate: negli Stati Uniti bonus che oscillano tra 1.000 e 5.000 dollari, in India fino a 100 dollari. Il meccanismo è quello di un mercato strutturato, con catene di intermediazione che moltiplicano i margini e riducono le donne a materia prima.
La spinta alla surrogazione non viene solo dalla domanda legata all’infertilità, ma da un ventaglio più ampio di committenti: coppie omosessuali, single, donne che non vogliono affrontare la gravidanza.
Un desiderio che si traduce in pratiche che scaricano i costi medici, psicologici e giuridici sulle surrogate, spesso provenienti da contesti vulnerabili. Non a caso molte agenzie cercano nuovi bacini di reclutamento in America Latina e in aree segnate da guerre o crisi economiche, dove la povertà spinge più facilmente ad accettare condizioni contrattuali rischiose. In questo contesto, la distinzione tra surrogazione altruistica e commerciale diventa quasi impossibile: i cosiddetti rimborsi superano di frequente la soglia del mero rimborso spese, trasformandosi a tutti gli effetti in un compenso.
Tra divieti assoluti e zone grigie: il mosaico delle legislazioni
Il documento Onu mostra come il panorama normativo mondiale sia frammentato e incoerente. Tre i modelli prevalenti: divieto totale, regolamentazione degli accordi altruistici e autorizzazione degli accordi commerciali. L’Italia ha scelto la linea più dura, trasformando nel 2024 la surrogazione in “reato universale”: i cittadini italiani possono essere perseguiti anche se ricorrono alla pratica all’estero, con pene fino a due anni di reclusione e multe fino a un milione di euro. In Australia e India si autorizzano solo formule altruistiche, mentre Georgia, Israele e Ucraina hanno previsto schemi commerciali. Ma la maggioranza dei Paesi non ha regole precise, lasciando spazio a pratiche tollerate ma prive di riconoscimento legale della filiazione.
Le conseguenze sono concrete. Nei casi di surrogazione internazionale, i bambini rischiano di trovarsi privi di cittadinanza o con status incerti, ostaggio di conflitti tra ordinamenti. La giurisprudenza europea conferma la disomogeneità: la Corte Suprema spagnola ha definito i contratti di surrogazione contrari alla dignità di donna e bambino, mentre in Francia la massima istanza ha riconosciuto nel 2024 provvedimenti di surrogazione statunitensi. Il risultato è un mercato che prospera nell’assenza di regole comuni e che permette ai committenti di scegliere il Paese più economico e permissivo. La cosiddetta certezza del diritto promessa agli aspiranti genitori resta fragile: contenziosi sulle registrazioni di nascita, rifiuti di riconoscere documenti esteri, procedure bloccate. Nel mezzo, donne surrogate spesso prive di strumenti legali e bambini privi di identità chiara. Per Alsalem è la prova che la regolamentazione non basta: “il rischio di sfruttamento e abuso non viene eliminato ma spostato, e rimane strutturale alla pratica stessa”.
Le molte facce della violenza
Il rapporto Onu dedica ampio spazio alle diverse forme di violenza legate alla surrogazione. La violenza economica si manifesta in contratti che costringono le donne a rinunciare preventivamente all’autonomia medica, negano risarcimenti in caso di aborto spontaneo o richiedono di coprire di tasca propria i farmaci se l’impianto non riesce. Alcuni documenti prevedono la sorveglianza continua da parte dei committenti o addirittura il monitoraggio tramite telecamere, oltre a restrizioni sulla libertà di movimento. La violenza psicologica emerge dalle pressioni emotive, spesso legate a un linguaggio che presenta la pratica come gesto di amore e solidarietà. Gli studi citati riportano livelli elevati di depressione e ansia tra le surrogate, con un 33% a rischio di disturbo post-traumatico e un 39% che riferisce emozioni negative rispetto alla decisione presa. Non mancano le tecniche di “distacco” promosse dalle agenzie per spegnere il legame con il bambino, con esiti di dissociazione tra corpo e sentimenti.
La violenza fisica è documentata dai rischi medici: più cesarei programmati indipendentemente dalle indicazioni cliniche, iperstimolazione ovarica, parti prematuri, complicazioni come ipertensione e pre-eclampsia. In contesti rurali e poveri le donne restano senza assistenza dopo il parto, con conseguenze a lungo termine. La violenza riproduttiva, infine, include aborti forzati, riduzioni embrionali imposte, selezione del sesso e sfruttamento delle donatrici di ovuli, spesso giovani donne o ragazze sottoposte a stimolazioni ripetute in laboratori privi di garanzie. Nei casi più gravi si sfiora la tratta: donne trasferite all’estero per fornire “lavoro riproduttivo” o costrette a vivere in condizioni di confinamento. Il contratto, più che una tutela, si rivela l’elemento che rende accettabile la compressione delle libertà fondamentali e che riduce la donna a un ruolo esecutivo, senza margini di autonomia.
Bambini tra separazione programmata e rischio di “vendita”
Il rapporto di Alsalem dedica un capitolo specifico ai minori, in particolare alle bambine, nati attraverso la surrogazione. La separazione alla nascita non è un incidente, ma un elemento programmato del contratto. Questo comporta l’impossibilità di allattamento e la privazione di un contatto prolungato con la donna che ha portato avanti la gravidanza, con conseguenze documentate sullo sviluppo dell’attaccamento e sulla salute emotiva. Sul piano clinico, i nati da surrogazione presentano tassi più alti di prematurità e basso peso, e una maggiore incidenza di difetti congeniti legati alle tecniche di procreazione medicalmente assistita.
I rischi non si fermano al piano biologico. Nei casi internazionali i bambini possono restare privi di cittadinanza, con conseguenze pesanti sull’accesso a sanità, istruzione, documenti di viaggio. Durante emergenze come la pandemia o la guerra in Ucraina, molti neonati sono rimasti bloccati in cliniche o in appartamenti affollati, senza che i genitori committenti potessero raggiungerli e senza che le madri surrogate avessero riconoscimento legale.
La Relatrice speciale ha definito la surrogazione commerciale una forma di “vendita di bambini”, poiché il trasferimento del minore dietro corrispettivo è l’obiettivo stesso dell’accordo. Una differenza puramente formale distingue la surrogazione legale dalla vendita illegale: il momento in cui si trasferiscono i diritti genitoriali. Inoltre, a differenza dell’adozione, dove si valuta l’idoneità dei futuri genitori e si parte da un bambino già esistente, nella surrogazione manca quasi sempre una verifica dei committenti: il requisito principale è la capacità di pagare. Da qui il rischio di abbandono in caso di disabilità, di sfruttamento da parte di soggetti non idonei o persino di utilizzo per fini criminali. Il documento propone che la madre sia riconosciuta in quanto tale al momento del parto. Solo successivamente, attraverso l’adozione e dopo una valutazione giudiziaria completa, si potrà decidere un eventuale trasferimento della genitorialità.