Infertilità in Italia: 5 anni d’attesa per iniziare le cure
In Italia, quando una coppia decide di chiedere aiuto perché il figlio tanto desiderato non arriva, passano in media dai quattro ai cinque anni prima che riesca a intraprendere un percorso terapeutico adeguato. Un lasso di tempo lunghissimo, soprattutto se confrontato con le esigenze biologiche della fertilità, che impone una diagnosi e un trattamento tempestivo. A lanciare l’allarme è la Società Italiana di Riproduzione Umana (Siru), che ha condotto un’indagine nei centri di riproduzione medicalmente assistita (Pma) in tutta Italia.
Il tempo perso e le conseguenze
Ma cosa succede in questi anni di attesa? Spesso le coppie si trovano disorientate, in un sistema che non offre loro percorsi chiari, né punti di riferimento precisi. L’infertilità, per quanto riconosciuta come condizione medica, resta ancora troppo spesso avvolta da silenzi, pregiudizi culturali e carenze informative. In assenza di Linee guida cliniche nazionali attive, di Pdta (Percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali) strutturati e facilmente accessibili, e con una rete pubblica frammentata, le persone si affidano al passaparola, a ricerche autonome online o a tentativi poco coordinati. Il risultato è un ritardo che pesa come un macigno.
Eppure, il tempo è la variabile chiave quando si parla di fertilità. Secondo uno studio pubblicato su Human Reproduction (febbraio 2021), sei mesi di ritardo nell’avvio della fecondazione in vitro possono ridurre le probabilità di successo di un trattamento del 5,6% nelle donne di 36-37 anni, del 9,5% nelle 38-39enni e dell’11,8% nelle 40-42enni. Se il ritardo arriva a dodici mesi, queste percentuali salgono all’11,9%, 18,8% e 22,4% rispettivamente. Ogni mese conta, e ogni mese perso è una possibilità in meno.
Eppure, nonostante l’evidenza scientifica, in Italia la diagnosi e il trattamento dell’infertilità non seguono un iter strutturato. Non esiste un sistema che guidi la coppia dal primo colloquio con il medico di medicina generale fino all’accesso a un centro di Pma. Il prezzo è altissimo, non solo in termini clinici, ma anche emotivi ed economici. La Siru insiste: serve una riorganizzazione profonda, perché il tempo che si perde oggi, domani potrebbe non bastare più.
La giungla normativa dell’infertilità
Il problema principale che le coppie infertili devono affrontare in Italia non è solo la patologia in sé, ma l’assenza di una rete sanitaria chiara e funzionante. Il sistema attuale, frammentato e non uniforme, manca di strumenti fondamentali come le Linee guida nazionali vincolanti e i Pdta attivi e riconosciuti su scala nazionale, indispensabili per indirizzare correttamente diagnosi, esami e trattamenti. In questo vuoto di regole e riferimenti, le persone si muovono a tentoni, spesso perdendo tempo prezioso in visite ripetute, esami non coordinati e valutazioni discordanti.
A certificare questo caos normativo è stata di recente la sentenza n. 4526/2024 del Tar del Lazio, pubblicata il 19 aprile, che ha annullato le Linee guida ministeriali sulla Pma pubblicate nel marzo 2024. Il motivo? Questi documenti, benché avessero valore clinico vincolante per i centri medici, non rispettavano il processo previsto dalla Legge Gelli-Bianco (n. 24/2017), che istituisce il Sistema Nazionale delle Linee Guida (SNLG). La sentenza è arrivata in risposta al ricorso presentato da quattro società scientifiche: Siru, Siu, Urop e Cecos Italia. È un colpo durissimo alla credibilità dell’intero impianto normativo e dimostra quanto l’assistenza riproduttiva in Italia sia ancora priva di basi solide.
Secondo Antonino Guglielmino, fondatore della Siru, il nodo è chiaro: “Senza Linee guida non si può parlare seriamente di Pdta. E senza Pdta, le coppie restano senza alcuna protezione strutturale”. I Pdta dovrebbero rappresentare una sorta di corridoio preferenziale, capace di indirizzare in tempi rapidi le persone verso la diagnosi e il trattamento più adatto, con criteri omogenei su tutto il territorio nazionale. Invece, oggi, ogni coppia si trova a reinventare da zero il proprio percorso, senza sapere a chi rivolgersi, cosa chiedere, o come far valere i propri diritti.
Nel frattempo, le disuguaglianze aumentano, i tempi si allungano e la fiducia nel sistema pubblico si affievolisce. Molti, potendoselo permettere, scelgono il privato o addirittura l’estero. Ma questo non è un modello sostenibile né equo.
Chi ha accesso alla Pma e chi deve rinunciare
Dal 1° gennaio 2025, la riproduzione medicalmente assistita è ufficialmente inserita nei Livelli Essenziali di Assistenza (Lea), dopo anni di attese e promesse. Un passo storico, che segna il riconoscimento formale della Pma come prestazione sanitaria da garantire in modo gratuito o convenzionato a tutte le coppie italiane con problemi di infertilità. Tuttavia, tra ciò che è scritto sulla carta e ciò che avviene nella realtà quotidiana, lo scarto è ancora enorme. Secondo la Siru, a distanza di pochi mesi dall’entrata in vigore, l’attuazione concreta dei Lea in materia di fertilità è ancora frammentaria e disomogenea.
Il motivo principale è legato al federalismo sanitario, che lascia ampi margini di manovra alle regioni. E così, accade che in alcune aree del Paese l’accesso alla Pma sia regolato da criteri inclusivi, con centri pubblici ben attrezzati e tempi di attesa accettabili; mentre in altre regioni le liste di attesa superano l’anno, i centri pubblici sono pochi o del tutto assenti, e i criteri di accesso sono più restrittivi, in base a limiti di età o condizioni cliniche. Il risultato? Un’Italia a due (o più) velocità, dove il diritto alla genitorialità diventa una questione geografica.
A pagare il prezzo più alto sono le coppie con redditi medio-bassi, che non possono rivolgersi al privato né tanto meno affrontare le spese per recarsi all’estero. Laddove il pubblico è carente, infatti, si apre la strada per un’offerta privata che può arrivare a costare dai 4.000 ai 7.000 euro a ciclo, esclusi i farmaci. In assenza di alternative, molte coppie rinunciano, oppure rimandano ulteriormente, incappando nel paradosso già descritto: più si aspetta, meno possibilità si hanno.
Tutto questo mina alle fondamenta il principio di equità del Servizio Sanitario Nazionale, nato proprio per garantire le stesse cure a tutti, ovunque si trovino. Eppure, nel campo della fertilità, la disparità regna sovrana. “Servono misure correttive immediate – ribadisce la Siru –. Bisogna potenziare l’offerta pubblica, uniformare i criteri di accesso, monitorare i tempi d’attesa e rendere davvero esigibili i Lea”.
In un’Italia dove la fecondità è ai minimi storici (1,18 figli per donna nel 2024, secondo l’Istat), l’infertilità non è più un tema privato, ma una questione pubblica e strutturale. Garantire l’accesso tempestivo e uniforme alla riproduzione medicalmente assistita significa promuovere la salute, la giustizia sociale e anche lo sviluppo demografico. È una politica sanitaria che incrocia welfare, equità, diritti civili e futuro.