Quanto costa davvero un figlio? In Italia incide fino al 60% sul bilancio familiare: le nuove metriche Ocse
- 10 Giugno 2025
- Famiglia
Non è la denatalità a causare il declino dei sistemi familiari. È il costo crescente e mal calcolato della genitorialità a rendere il figlio un privilegio, non una scelta. Il nuovo rapporto dell’Ocse “Parenting on a Budget” ribalta l’ordine delle priorità: non basta incentivare le nascite se non si affronta in modo sistematico quanto costa davvero crescere un figlio. Non in astratto, ma nella pratica concreta di famiglie sempre più complesse: monoparentali, ricomposte, separate, con figli a carico solo in parte.
Utilizzando i dati armonizzati delle indagini Eu-Hbs e Eu-Silc, il documento mostra che il primo figlio può comportare un peso tra il 20% e il 75% del consumo di un adulto, e che le famiglie con figli percepiscono un disagio economico molto maggiore di quello registrato nelle statistiche ufficiali. In Italia, la discrepanza tra spesa reale e difficoltà dichiarata è tra le più alte d’Europa.
Quanto costa davvero un figlio
Stabilire il “vero” costo di un figlio è più complesso di quanto sembri. Il rapporto Ocse utilizza due approcci complementari: uno basato sulla spesa effettiva delle famiglie (European Household Budget Surveys – Eu-Hbs) e l’altro sulla difficoltà soggettiva a far quadrare i conti (EU Statistics on Income and Living Conditions – Eu-Silc). Il primo misura cosa viene acquistato, il secondo quanto quella spesa pesa.
I risultati divergono. In media, secondo i dati di spesa, il primo figlio incide per il 23% sul bilancio familiare in un nucleo con due adulti. Ma quando si chiede alle famiglie quanto riescano a “far quadrare i conti”, la risposta è molto più netta: il carico economico percepito arriva al 41% del reddito di un adulto. Una forbice che diventa ancora più ampia in paesi come Austria, Svezia, Portogallo, Danimarca.
In Italia, la stima oggettiva del costo del primo figlio si colloca attorno al 27%, in linea con la media europea. Tuttavia, le famiglie italiane riportano un livello di difficoltà economica ben superiore, con una discrepanza tra spesa effettiva e disagio percepito tra le più ampie tra i paesi Ocse.
Una seconda evidenza chiave riguarda le economie di scala: ogni figlio in più, in teoria, costa meno del precedente. Ma solo sulla carta. I dati Ocse mostrano che il secondo figlio ha un’incidenza del 20% sul bilancio familiare, ma che questa percentuale non cala in modo significativo nelle famiglie monoparentali, dove il secondo figlio costa quasi quanto il primo. Per il terzo figlio, la variazione si appiattisce del tutto.
Famiglie monoparentali e figli “a metà”
Il rapporto dedica ampio spazio alle configurazioni familiari atipiche, che non corrispondono ai modelli di riferimento adottati nella gran parte delle misure di welfare europee. Tra queste, le famiglie monoparentali e quelle con figli non residenti – cioè minori che vivono parte del tempo con uno dei genitori, come nelle custodie condivise o alterne – presentano profili di spesa e disagio economico ben più critici rispetto alle famiglie tradizionali.
In Italia, come in molti paesi Ocse, il costo stimato del primo figlio per un genitore solo è significativamente più alto rispetto alle coppie. Le stime basate sul benessere percepito indicano che la pressione economica può raggiungere il 60% del consumo equivalente di un adulto, contro circa il 27% rilevato nelle famiglie biparentali
Un’altra zona grigia è rappresentata dai figli non residenti. Sebbene vivano solo una parte del tempo con uno dei genitori, generano comunque spese fisse (camera, vestiti, attività extrascolastiche doppie, alimentazione), spesso ignorate dalle statistiche. L’Ocse sottolinea che i costi associati ai figli in custodia alternata non vengono rilevati nei principali strumenti di indagine, rendendo invisibili migliaia di situazioni economiche a rischio.
In Italia, dove la custodia condivisa è in aumento, mancano strumenti normativi per intercettare questo fenomeno: l’Assegno Unico, ad esempio, non distingue tra figli conviventi e figli “a tempo parziale”, né tra carico economico effettivo e residenza anagrafica.
Non tutti i figli costano uguale
Il rapporto Ocse documenta un altro aspetto spesso trascurato: l’età dei figli incide significativamente sui costi familiari, in particolare nella fascia adolescenziale e giovanile. Un bambino sotto i 5 anni comporta spese dirette (alimentazione, pannolini, babysitter), ma queste tendono a diminuire con l’accesso alla scuola pubblica. Al contrario, un adolescente o un giovane adulto (14–24 anni) presenta un carico più elevato e prolungato nel tempo: scuola superiore, università, spese tecnologiche, trasporti, affitto.
In Italia questo dato assume un rilievo specifico. Secondo Eurostat, oltre il 70% dei giovani tra i 20 e i 29 anni vive ancora con i genitori, e il sostegno economico familiare si prolunga ben oltre la maggiore età. Tuttavia, la maggior parte delle politiche pubbliche, inclusi i trasferimenti monetari, terminano attorno ai 21 anni.
Il rapporto segnala che i nuclei con figli adolescenti dichiarano maggiori difficoltà economiche rispetto a quelli con figli piccoli, a parità di reddito. In Italia, dove la permanenza dei figli in famiglia è più lunga rispetto alla media Ocse, il costo “invisibile” del mantenimento post-18 non è riconosciuto da alcun supporto strutturale. Questo crea una pressione economica a lungo termine su molte famiglie, in particolare su quelle a reddito medio-basso.
Perché i numeri non bastano a spiegare il disagio
Il cuore del problema, secondo l’Ocse, è metodologico. Stimare il costo di un figlio implica scegliere tra vari modelli, ognuno con vantaggi e limiti. Le cosiddette scale di equivalenza, ad esempio, servono a comparare i bisogni tra famiglie di diversa dimensione. La scala modificata Ocse assegna un peso del 30% a un bambino sotto i 14 anni, ma non distingue tra figli unici, fratelli, adolescenti o minori che vivono fuori casa.
I dati raccolti mostrano che questi modelli standard tendono a sottostimare le reali esigenze delle famiglie meno numerose, monoparentali o “atipiche”. Esistono anche approcci alternativi: modelli teorici (Prais-Houthakker, Engel, Rothbarth), modelli econometrici (Barten-Gorman) e approcci fondati sul benessere soggettivo. Tuttavia, nessun metodo riesce a cogliere pienamente la complessità della spesa familiare nell’attuale contesto sociale e demografico.
Nel caso italiano, questa distorsione si traduce in una rappresentazione incompleta del disagio familiare nei dati ufficiali: le famiglie appaiono meno vulnerabili di quanto siano realmente, con conseguenti effetti sulla progettazione delle politiche. Per l’Ocse, serve un nuovo standard europeo in grado di includere tutte le forme familiari – incluse quelle separate, ricomposte e miste – nella definizione dei bisogni economici.