Quando curarsi diventa partire: la migrazione sanitaria dei bambini
- 16 Settembre 2025
- Famiglia
Nascere al Nord o al Sud d’Italia non è la stessa cosa, soprattutto quando si parla di salute dei bambini. Il fenomeno della migrazione sanitaria infantile mette in evidenza questa spaccatura: migliaia di famiglie, ogni anno, sono costrette a varcare i confini regionali per cercare cure che non trovano nel proprio territorio. Non si tratta di spostamenti marginali, ma di viaggi che coinvolgono patologie croniche, rare e ad alta complessità, in cui la qualità e la tempestività delle cure possono determinare la differenza tra un recupero e un peggioramento irreversibile.
Le cifre ufficiali, pur risalenti al 2019, raccontano ancora bene la portata del fenomeno. I bambini sotto i 15 anni residenti al Sud vengono curati fuori regione nell’11,9% dei casi, quasi il doppio rispetto ai coetanei del Centro-Nord (6,9%). Il divario cresce quando la malattia è più complessa: oltre un bambino su cinque del Mezzogiorno è costretto a spostarsi, contro il 10,5% dei coetanei settentrionali. Questa mobilità non è solo un dato statistico, ma un meccanismo che alimenta squilibri sociali e sanitari: a fronte di un bisogno, le famiglie si trovano a pagare due volte, con le tasse e con sacrifici personali.
La migrazione sanitaria infantile mette in evidenza una contraddizione centrale: in un Paese che rivendica un Servizio sanitario nazionale equo e universale, il diritto alla cura dipende invece dalla geografia. La conseguenza è che i bambini più fragili, quelli con malattie rare o patologie che richiedono interventi complessi, finiscono per pagare il prezzo di un sistema che non riesce a garantire la stessa qualità di servizi in ogni regione.
Ospedali d’eccellenza: pochi poli attrattivi e un ranking che conferma le distanze
Il quadro delle eccellenze italiane è chiaro anche a livello internazionale. La classifica World’s Best Specialized Hospital 2026, pubblicata da Newsweek in collaborazione con Statista, colloca l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma al sesto posto al mondo. Più distanziati, ma comunque presenti, il Gaslini di Genova (32esimo) e gli Ospedali Riuniti Marche Nord di Pesaro (36esimo). Tre nomi che certificano un livello di competenze riconosciuto a livello globale, ma che allo stesso tempo confermano una distribuzione limitata dei poli d’eccellenza sul territorio nazionale.
Questo squilibrio geografico è il motore principale della mobilità sanitaria. Un bambino nato in Calabria con una malattia rara ha molte meno probabilità di trovare una risposta adeguata nella propria regione rispetto a un coetaneo nato in Liguria. Di conseguenza, i flussi verso il Centro-Nord diventano inevitabili: nel 2019 il 87,1% della spesa di migrazione sanitaria infantile del Sud, pari a oltre 90 milioni di euro, è finito nelle casse degli ospedali settentrionali. In altre parole, non solo i pazienti si spostano, ma anche le risorse economiche che avrebbero potuto rafforzare il sistema sanitario meridionale.
Il contrasto è ancora più evidente se si guarda al contesto internazionale. Secondo la Fondazione Gimbe, nel 2024 l’Italia destina alla sanità pubblica il 6,3% del Pil, contro il 6,9% della media europea e il 7,1% dell’area Ocse. In termini pro capite la forbice è ancora più netta: 3.835 dollari per cittadino contro i 4.689 della media europea, un divario di 854 dollari che vale complessivamente 43 miliardi. Così il Paese che può vantare ospedali pediatrici ai vertici mondiali resta, sul piano del finanziamento complessivo, fanalino di coda nel G7. Un cortocircuito che rende strutturale la dipendenza delle regioni meridionali da quelle settentrionali.
Il prezzo nascosto
Per una famiglia, la diagnosi di una malattia complessa in un bambino non comporta solo ansia e paura: in molte aree del Paese significa anche prepararsi a un trasloco forzato. Dietro ai numeri della mobilità si nascondono spese aggiuntive che raramente entrano nei bilanci ufficiali. Viaggi in treno o in auto, affitti temporanei, pasti fuori casa, assenze dal lavoro: ogni voce si somma fino a trasformarsi in una montagna difficile da scalare. Per chi vive già con redditi più bassi, tipici di molte famiglie del Sud, il percorso di cura diventa una seconda malattia economica.
Il peso si amplifica quando si parla di malattie croniche o rare, che richiedono ricoveri ripetuti. Non è insolito che una madre debba abbandonare il proprio lavoro per seguire il figlio in ospedale, mentre il padre resta a casa a mantenere il nucleo. Questo genera fratture non solo economiche, ma anche sociali ed emotive: famiglie divise, fratelli separati, reti di supporto spezzate. A ciò si aggiunge l’isolamento: non tutte le strutture ospedaliere offrono spazi di accoglienza, e non tutti hanno amici o parenti pronti a ospitarli per settimane o mesi.
Questo scenario si inserisce in un trend di progressivo definanziamento. Dal 2011 in poi la spesa sanitaria italiana si è allontanata sempre di più dalla media europea: durante la pandemia altri Paesi hanno investito massicciamente, mentre l’Italia ha mantenuto livelli quasi stabili. Nel 2024 il gap con la Germania, ad esempio, ha raggiunto i 4.245 dollari pro capite: 8.080 contro 3.835. Numeri che spiegano perché intere aree del Paese restino prive di centri adeguati e perché la mobilità sanitaria infantile continui a crescere. In assenza di risorse, il diritto alla salute resta un diritto “geografico”, non universale.
L’importanza del supporto oltre le cure
In questo vuoto istituzionale, sono spesso le associazioni a costruire risposte concrete. Tra le esperienze più significative c’è quella di ABC Bambini Chirurgici, nata vent’anni fa dall’esperienza personale di Giusy Battain, madre di un bambino nato con una grave malformazione. Da quel dolore è nato un progetto che oggi collabora stabilmente con l’Ircss Materno Infantile Burlo Garofolo di Trieste, offrendo non solo supporto psicologico, ma anche case accoglienti e un gruppo di volontari capaci di accompagnare le famiglie durante i periodi di cura.
I numeri raccontano il valore di questa rete: nel 2024, ABC ha ospitato gratuitamente 187 famiglie, per un totale di oltre 1.500 notti, più della metà provenienti dal Centro-Sud. La Chirurgia pediatrica del Burlo, nello stesso anno, ha registrato 2.844 accessi, di cui il 24,5% da fuori regione. In questo quadro, l’associazione copre un bisogno reale: non solo un tetto, ma spazi familiari e dignitosi che permettono di affrontare la degenza senza sentirsi sradicati.
L’impatto non si misura solo in termini numerici ma nella qualità del percorso: il supporto psicologico dalla diagnosi prenatale, la presenza costante di volontari, l’attenzione a creare ambienti accoglienti sono elementi che contribuiscono a rendere meno traumatico un percorso complesso. ABC rappresenta un modello di “cura integrata” che guarda oltre l’aspetto strettamente clinico e che, oggi, punta a essere replicato in altre realtà ospedaliere italiane. Un esempio di come la società civile possa supplire, almeno in parte, alle mancanze strutturali del sistema sanitario.