Estate, come le famiglie italiane sopravvivono a 3 mesi senza scuola
Il 6 giugno ha segnato la fine delle lezioni per milioni di studenti italiani. Da quel momento, per molte famiglie si è aperto un periodo complesso da gestire: 14 settimane senza scuola, le più lunghe d’Europa, con genitori al lavoro e figli a casa. Il calendario scolastico italiano è tra i meno flessibili del continente. A differenza di altri Paesi come Francia, Germania o Regno Unito, dove la pausa estiva dura al massimo due mesi, in Italia si estende ben oltre. Una differenza che, in assenza di un sistema integrato di servizi estivi pubblici, diventa un problema economico, organizzativo e sociale.
Chi ha un lavoro a tempo pieno è costretto a fare i conti con settimane da coprire: ferie, permessi, nonni, babysitter, centri estivi. Chi lavora part-time o ha contratti discontinui spesso rinuncia al reddito pur di garantire una presenza a casa. Il peso ricade soprattutto sulle madri, che in larga parte si fanno carico della gestione dei figli durante l’estate. Questo vuoto scolastico non è compensato da un’offerta pubblica strutturata. La scuola resta l’unico presidio educativo garantito, ma d’estate scompare. Il resto è lasciato all’iniziativa delle famiglie, con soluzioni che variano a seconda delle possibilità economiche, della rete familiare e del territorio.
Centri estivi sempre più costosi
Negli ultimi anni i centri estivi sono diventati uno dei principali strumenti per la gestione dell’estate dei figli. Ma sono anche sempre più costosi. L’indagine condotta da Adoc ed Eures su 200 centri estivi in otto città italiane mostra un incremento medio del 12,3% rispetto al 2024 e del 22,7% rispetto al 2023. Il costo medio settimanale per un centro estivo a tempo pieno è oggi di 173 euro.
Per una famiglia con un solo figlio che frequenta per otto settimane, la spesa arriva a 1.384 euro. Per due figli, si superano facilmente i 2.600 euro. Gli sconti per i fratelli sono rari (solo nel 40% dei casi) e generalmente non superano il 10%. A Milano, la città più cara, si spendono in media 227 euro a settimana: quasi il doppio rispetto a Bari. A livello regionale, il Nord registra i costi più alti (189 euro settimanali), seguito dal Centro (162 euro) e dal Sud (134 euro).
La spesa aumenta se si considera il servizio mensa: solo il 71,7% dei centri lo offre, mentre il resto richiede il pranzo da casa o il pagamento di un extra. Questo significa ulteriore impegno e costo per le famiglie, che spesso devono scegliere il centro estivo non in base alla qualità, ma in base a ciò che riescono a permettersi. Il risultato è un accesso fortemente diseguale a un servizio che, teoricamente, dovrebbe aiutare a garantire pari opportunità.
I centri estivi non sono più un’alternativa per pochi, ma una necessità per molti. Tuttavia, l’aumento dei costi, spesso superiore all’inflazione (che nel 2025 si attesta all’1,7% secondo il Fondo Monetario Internazionale), rende sempre più difficile sostenerli. L’assenza di una rete pubblica sufficiente costringe le famiglie a orientarsi verso il privato, con offerte che variano ampiamente in termini di tariffe, qualità e accessibilità.
Bonus Centri Estivi Inps: chi può richiederlo e come funziona
Per le famiglie di dipendenti pubblici iscritti alla Gestione Unitaria delle prestazioni creditizie e sociali, esiste un bando Inps che permette di ottenere un contributo totale o parziale per la frequenza di un centro estivo diurno da giugno a settembre, rivolto ai minori tra 3 e 14 anni.
Il contributo copre:
- attività ludico-ricreative e sportive;
- spese di vitto (pranzo e merende);
- eventuali gite e coperture assicurative.
La durata minima è di una settimana, la massima di quattro, anche non consecutive. Il rimborso è calcolato in base all’Isee e sul costo settimanale del centro, fino a un tetto massimo stabilito dal bando.
Per accedere, occorre presentare la domanda tramite il “Portale prestazioni welfare” sul sito Inps. L’elenco dei requisiti e delle strutture ammesse è pubblicato ogni anno nel bando ufficiale.
L’estate è (anche) una questione educativa
Durante l’estate, i bambini hanno bisogno di attività fisica, socialità e tempo all’aperto. È il parere del pediatra Italo Farnetani, che indica tre priorità per organizzare le giornate dei più piccoli: contatto con i coetanei, vita all’aperto, sport. L’obiettivo è contrastare la sedentarietà, promuovere il benessere psicofisico e sostenere la socializzazione. Elementi fondamentali anche nella prevenzione del sovrappeso infantile, in crescita soprattutto nelle aree urbane.
I centri estivi, in questo senso, possono essere strumenti utili. Ma non tutti rispondono a questi criteri. Farnetani invita a evitare strutture che propongono attività “simil-scolastiche” o troppo statiche: disegni, lavoretti o mini-lezioni non sostituiscono il bisogno di muoversi e stare in gruppo. Tra le attività consigliate c’è soprattutto il nuoto: in Italia, il 70% dei minori non sa nuotare correttamente. Offrire corsi in piscina, secondo il pediatra, dovrebbe essere una priorità.
Tuttavia, i centri che offrono programmi sportivi o attività acquatiche sono spesso anche quelli più costosi. La selezione naturale avviene in base alla capacità di spesa, non alla qualità educativa. Questo comporta una disparità nell’accesso a esperienze estive che dovrebbero essere comuni a tutti i bambini. Inoltre, i centri pubblici sono pochi, mal distribuiti e spesso limitati nella durata.
Un altro elemento da considerare è l’assenza di flessibilità oraria. Molti centri estivi chiudono a metà pomeriggio, costringendo i genitori a ulteriori incastri. Le formule ridotte, senza pranzo, stanno aumentando, ma non sempre rispondono alle esigenze delle famiglie che lavorano a tempo pieno. L’alternativa – lasciarli a casa – è sconsigliata dagli esperti. Farnetani ricorda che i bambini non dovrebbero essere mai lasciati soli: non solo per ragioni di sicurezza, ma anche per la qualità del loro tempo.
Estate senza soluzioni pubbliche
Il punto critico resta l’assenza di un piano pubblico strutturato. La lunga pausa estiva scolastica non è un dato intoccabile, ma una scelta politica non aggiornata. In Italia, il calendario scolastico è rimasto sostanzialmente invariato dagli anni ’70, nonostante nel frattempo siano cambiate profondamente le famiglie, il lavoro e la società.
Anna Rea, presidente di Adoc, definisce questa situazione una “emergenza economica e sociale”. Chiede una revisione del calendario scolastico, una detraibilità fiscale dei costi dei centri estivi nel 730 e un piano pubblico che garantisca continuità educativa nei mesi estivi. Non si tratta di fare “scuola d’estate”, ma di garantire accesso a servizi educativi, sportivi e ricreativi per tutti.
La mancanza di interventi strutturali produce effetti collaterali. Le famiglie si arrangiano con ciò che hanno. Chi non può permettersi un centro estivo lascia i figli davanti a uno schermo. Chi ha i nonni, li coinvolge. Chi non ha nessuna di queste opzioni, rinuncia a lavorare o accumula stress.
Nel frattempo, si acuiscono le disuguaglianze educative tra bambini che passano l’estate in centri ben attrezzati e chi resta a casa. Il rischio non è solo un’interruzione dell’apprendimento, ma una perdita progressiva di competenze, relazioni e stimoli. In assenza di un’azione concreta, la lunga estate italiana resta un problema sottovalutato, ma centrale nel dibattito su scuola, famiglia e politiche sociali.