Settimana corta, sì per 8 lavoratori su 10. Quali sono i pro e i contro?
- 17/07/2024
- Popolazione
I lavoratori italiani vogliono la settimana corta. La richiesta arriverebbe quasi all’unisono secondo un’indagine della società NielsenIQ in cui l’80% degli intervistati si è dichiarato favorevole alla riduzione della settimana lavorativa da cinque a quattro giorni. Accanto alla settimana corta, anche lo smart working è emerso come strumento fortemente auspicato dai lavoratori italiani per migliorare la propria salute e la cura della famiglia.
Le necessità dei caregiver
L’obiettivo è risaputo: poter conciliare meglio la propria vita professionale con quella personale, avendo più spazio per la cura di sé e della propria famiglia. Quest’ultimo termine racchiude in sé diversi significati e altrettante sfumature della nostra società. Molti dipendenti vorrebbero stare un giorno in più con i propri figli per goderseli e per crescerli, ma il 52% degli intervistati ha dichiarato di non essere genitore.
Dunque, ci sono altre ragioni che rendono auspicabile la settimana corta per 8 lavoratori su 10.
In primis gli anziani, spesso genitori affidati a grigie case di cure per mancanza di tempo (e in alcuni casi, di voglia). Il 13% del campione dice di doversi rivolgere a professionisti per la cura domestica, spendendo, in media, 107 euro al mese. Anche in questo caso la settimana corta viene percepita come un valido supporto da 8 intervistati su 10.
Quando però i soldi scarseggiano e non ci si può avvalere di un supporto esterno, la situazione si complica ulteriormente e il rischio è che si viva più a lungo, ma peggio.
In un contesto del genere la settimana corta, ma a parità di stipendio, verrebbe accolta positivamente dall’85% degli intervistati “caregiver”, che avrebbero l’opportunità di curare i propri familiari con maggiore autonomia. Su questo aspetto delicato della nostra società si è espressa anche Luana Zanella, vicepresidente della Commissione Affari Sociali alla Camera dei deputati, intervenendo al convegno Adnkronos Q&A “La cura delle persone” organizzato dall’Adnkronos lo scorso 11 luglio.
Dal suo intervento è emerso il ruolo centrale dei caregiver e la necessità di un welfare personalizzato, che tenga conto della specificità delle varie situazioni. Il rischio, altrimenti, è che i lavoratori, ma soprattutto le lavoratrici, siano costretti “a lasciare il proprio posto di lavoro per poter accudire i propri cari, che siano figli, genitori o altri parenti”, come ha ricordato la ministra per le Disabilità Alessandra Locatelli, intervenuta in video all’evento Adnkronos.
Non solo caregiver
Se non si ha nessuno da curare, il risultato non cambia: avere un giorno libero in più a settimana permetterebbe di dedicare maggiore tempo al benessere personale, soprattutto per svolgere l’attività fisica (62% degli intervistati), ma anche fare gite e viaggi (54%). Insomma, la settimana corta viene vista come modalità per accrescere l’equilibrio tra lavoro e vita privata, come ha rivelato il 72% del campione, la soddisfazione personale (63%) e il tempo di qualità da dedicare alla famiglia e agli amici.
Più sacrifici, ma non sullo stipendio
Non è tutto rose e fiori, ma quasi.
Tra i possibili aspetti critici della settimana corta, gli intervistati evidenziano l’aumento del carico di attività durante i giorni lavorativi (51%), la maggior pressione e stress associato al raggiungimento degli obiettivi (37%) e i problemi di coordinamento con gli altri colleghi (27%). Ostacoli che i lavoratori sono pronti a superare: pur di lavorare un giorno in meno, un intervistato su due sarebbe disposto ad accettare una maggiore flessibilità sull’orario di lavoro durante la settimana lavorativa (52%), o un aumento della produttività durante i giorni lavorativi (47%) e un minor numero di pause (45%).
L’indicazione che arriva dal sondaggio NielsenIQ è chiara: non solo gli imprenditori, ma anche i lavoratori vorrebbero che la produttività aumenti e il tempo passato al lavoro sia più efficiente, abbattendo gli sprechi di tempo e riducendo le giornate di lavoro.
Il tutto purché non si tocchi la busta paga, dato che solo il 10% sarebbe disposto ad accettare una riduzione anche leggera dello stipendio. D’altronde l’Italia si è aggiudicata il poco invidiabile titolo di “maglia nera degli stipendi” secondo l’ultimo rapporto Ocse. Peggio del Belpaese solo Repubblica Ceca e Svezia. Nel 2023, i lavoratori italiani hanno subito una contrazione degli stipendi reali pari al -6,9% rispetto al 2019, e se si allarga lo sguardo il quadro diventa cupo.
Dal 1991 al 2023, gli stipendi reali sono cresciuti solo del +1% contro il 32,5% della media dei Paesi dell’organizzazione, anche se per il governatore di Bankitalia Fabio Panetta: “l’attuale aumento delle retribuzioni rappresenta un inevitabile recupero del potere d’acquisto, destinato ad affievolirsi a mano a mano che si ridurrà la perdita da recuperare. Inoltre – ha ricordato all’Assemblea Abi 2024 – i minori costi degli input produttivi intermedi e i cospicui profitti sin qui accumulati consentono alle imprese di assorbire la crescita salariale senza trasferirla sui prezzi finali”.
Lo smart working
Se i salari non sono sufficienti a rilanciare la natalità e gli sforzi politici non bastano, il ruolo delle aziende diventa fondamentale per riequilibrare il work life balance. Le iniziative in tal senso sono tante, ma appannaggio quasi esclusivo delle realtà medio-grandi.
Tra le soluzioni più indolori per le aziende e utili per i lavoratori c’è lo smart working, forse l’unico lascito positivo di quel periodo terribile che è stato la pandemia.
Dall’indagine NielsenIQ emerge che lo smart working è ormai una realtà consolidata per diverse realtà: un intervistato su 3 lavora in modalità full remote o ibrida. In media viene concesso per il 37% delle ore totali di lavoro (uno o due giorni, su cinque).
La preferenza per il lavoro agile, tuttavia, non è schiacciante: il 49% del campione preferisce il lavoro agile, mentre il 42% preferisce recarsi in ufficio.
Perché non c’è una preferenza netta per il lavoro da casa? Una possibile chiave di lettura viene offerta da Alessandra Bocca: “Abbiamo rilevato che fosse richiesto non solo lo smart working ma anche una presenza all’interno degli uffici per cementare quelle relazioni umani che restano importanti per i dipendenti”, ha spiegato la manager di Mundys intervenendo all’evento Adnkronos dello scorso 11 luglio.
Pro e contro dello smart working
Lo smart working offre diversi benefici, a partire dalla riduzione dei tempi di spostamento per raggiungere il luogo di lavoro, che in media ammonta a 41 minuti e viene riscontrato dal 77% degli intervistati. Collegato a questo aspetto c’è un miglior work life balance, riscontrato dal 65% del campione e anche una riduzione dei costi mensili, riscontrata dal 72% del campione. Secondo l’indagine, in media un italiano spende 124 euro al mese tra spese di spostamento e prenzi di lavoro, non proprio spiccioli a fronte dei salari italiani.
Tra i maggiori rischi percepiti del lavoro da casa, invece, ci sono l’isolamento sociale (59%), la sedentarietà (58%) e la difficoltà a separare lavoro e vita privata (44%).
Gli esempi di Intesa San Paolo e Luxottica
Mentre i lavoratori italiani sognano (e quelli greci fanno i conti con la settimana lunga), alcune grandi realtà smuovono i primi tasselli. Intesa Sanpaolo è stata la prima azienda a introdurre nel nuovo modello organizzativo del lavoro la settimana corta, già a inizio 2023.
Un’attenzione ai suoi lavoratori che si aggiunge ad altre misure già ricomprese nella contrattazione di Gruppo. Tra gli aventi diritto, circa il 70% ha attivato l’opzione per lavorare un giorno in meno a parità di ore lavorate. Di questi il 46% nel corso del 2023 ha utilizzato la settimana corta, per un totale di oltre 46.700 settimane, ma il dato è in crescita.
Intanto, un recente sondaggio interno ha rilevato che il 99% dei bancari di Intesa Sanpaolo che lavora in smart working e utilizza la possibilità di distribuire l’orario settimanale su 4 giorni anziché 5, in futuro vuole continuare a farlo, mentre il 45% vorrebbe più giorni da remoto a disposizione.
Anche Luxottica si è mossa in questa direzione. L’accordo fra il colosso della produzione e commercio di occhiali e i dipendenti consiste in 20 settimane corte da 4 giorni nel corso dell’anno, a parità di stipendio.
Esempi sicuramente incoraggianti, ma sporadici. D’altronde non si può esigere che le imprese risolvano da sole quello che è un problema politico e sociale come la crisi demografica.
Il cambiamento è iniziato, ora tocca alle istituzioni incentivare la settimana corta e lo smart working, che, insieme agli aumenti salariali, sono le uniche arme credibili per arrestare la denatalità. Che è anche un problema di produttività.
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