Liste d’attesa, oltre 300 giorni per una mammografia: tutti i ritardi del Ssn
- 26 Giugno 2025
- Welfare
Ora non ci sono più alibi. Con la pubblicazione della Piattaforma Nazionale delle Liste di Attesa (Pnla), il servizio sanitario ha messo nero su bianco una verità che milioni di cittadini già conoscevano sulla propria pelle: per farsi visitare, in Italia, bisogna aspettare. E tanto. Il nuovo cruscotto informativo online, realizzato da Agenas e aggiornato ai primi cinque mesi del 2025, non si limita a offrire un quadro d’insieme: inchioda il sistema alle sue responsabilità, prestazione per prestazione, struttura per struttura.
Quasi 23 milioni di prenotazioni monitorate, in tutte le Regioni, con informazioni sui tempi effettivi di attesa, sulla classe di priorità indicata dal medico, sull’accettazione delle prime disponibilità da parte dell’utente, e persino sulle tempistiche offerte a chi sceglie la libera professione. Risultato? Il Servizio Sanitario Nazionale riesce a garantire le urgenze, ma crolla su tutto il resto.
È un’Italia sanitaria a due marce. Se la tua prestazione è urgente (priorità U), il sistema si muove: nella maggior parte dei casi sei dentro in tre giorni. Ma se rientri nelle altre categorie – breve (B), differibile (D), programmabile (P) – la lista d’attesa diventa una sentenza di attesa indefinita. Per alcune prestazioni, la legge prevede un tempo massimo di 30, 60 o 120 giorni. I dati della Pnla mostrano come questi limiti siano ormai diventati una formalità teorica.
Peggio ancora: il sistema non solo accumula ritardi, ma non li corregge, né sembra capace di redistribuire efficacemente le risorse. L’indicatore più preoccupante? La mediana dei tempi di attesa per le prestazioni differibili cresce costantemente, mese dopo mese. Significa che gli arretrati si impilano, e i cittadini restano in lista. Invisibili, finché non finiscono in pronto soccorso.
Dove si inceppa il sistema
L’illusione delle classi di priorità serve, sulla carta, a ordinare le prestazioni in base all’urgenza clinica. Ma nei fatti, il sistema si blocca proprio là dove dovrebbe essere più efficiente: sulle patologie croniche e sulle diagnosi precoci. La classe D, che dovrebbe garantire visite e accertamenti entro 30 o 60 giorni, è il punto di rottura: i tempi reali sforano regolarmente.
Un esempio su tutti: la visita dermatologica, tra le più richieste a livello nazionale. Per i casi differibili, i tempi massimi raggiungono 190 giorni, oltre sei volte il limite. E per le prestazioni programmabili si arriva a 253 giorni. Mezzo anno – o quasi – per una visita che potrebbe rilevare un tumore cutaneo in fase iniziale. Ma non è un caso isolato. Ecografie, mammografie, doppler vascolari: l’intera diagnostica preventiva è in ritardo cronico. E il ritardo, quando si parla di diagnosi, può fare la differenza tra una terapia e una prognosi infausta.
Altro settore sotto stress: la cardiologia. Per le urgenze, il sistema tenta di tenere il passo, ma già nei casi differibili i limiti vengono violati in modo sistematico. Si arriva fino a 100 giorni di attesa, con una mediana che si attesta intorno ai 40 giorni: una distorsione che colpisce soprattutto gli anziani, i pazienti post-infarto, i soggetti in follow-up.
Un cortocircuito evidente: il Ssn è costruito per intervenire “quando il danno è fatto”, ma non ha la capacità – o la volontà organizzativa – di investire nella medicina di prossimità, nella prevenzione, nei percorsi strutturati. Sopravvive chi arriva prima al Cup, chi ha il medico giusto, chi si muove bene nel labirinto delle agende. Per tutti gli altri, resta la coda. E il rischio.
La libera professione come scorciatoia
Tra le funzioni più controverse della Pnla, c’è la possibilità di confrontare i tempi di attesa in Ssn e quelli in libera professione. E i dati – anche qui – non lasciano spazio a interpretazioni: chi paga, salta la fila.
La piattaforma mostra come per molte prestazioni il gap temporale tra sistema pubblico e intramoenia sia abissale. Un esempio emblematico? L’ecocolordoppler cardiaco a riposo: in regime Ssn si attendono fino a 188 giorni, mentre in libera professione si può ottenere in meno di una settimana. È così anche per la mammografia bilaterale: oltre 300 giorni nel pubblico, pochi giorni nel privato accreditato o a pagamento.
Questa dinamica non è nuova, ma oggi è tracciata e documentata. E certifica un sistema sanitario formalmente universale, ma concretamente a due velocità. Chi ha disponibilità economiche può bypassare la burocrazia e ottenere diagnosi rapide. Chi non può, aspetta. Il dato più amaro è che questa disparità non solo mina il principio costituzionale di equità, ma colpisce le persone già fragili, spesso a basso reddito, con patologie croniche o limitata capacità di mobilità.
Nemmeno i tentativi di razionalizzazione interna, come le preliste, sembrano sufficienti a garantire tempi certi. La loro efficacia, monitorata dalla Pnla, è ancora troppo variabile per rappresentare una soluzione strutturale. In molti casi, anzi, le preliste diventano un ulteriore collo di bottiglia, un passaggio intermedio che posticipa ulteriormente la prestazione effettiva.
Il Ssn tra monitoraggio e riforma
Il ministro della Salute Orazio Schillaci ha presentato la piattaforma come “un primo passo concreto verso la trasparenza”. E in effetti lo è. Ma la trasparenza, da sola, non basta. Serve capacità operativa, e soprattutto coraggio politico. Perché la Pnla, oggi, è un grande specchio: riflette fedelmente un sistema che – salvo rare eccezioni – non riesce a rispondere alla domanda ordinaria di salute.
Qualche buona pratica esiste. L’ortopedia, ad esempio, mostra dati confortanti: nella maggior parte dei casi, anche le classi differibili e programmabili rientrano nei limiti di legge. Anche la radiografia del torace funziona: prestazione semplice, capillarmente diffusa, tempi d’attesa contenuti. Ma si tratta di casi isolati, che dipendono più dalla tipologia della prestazione che dalla riorganizzazione sistemica.
Sul fronte delle riforme, si guarda al futuro con il modello del Pacc – Percorso Ambulatoriale Complesso e Coordinato, già sperimentato in alcune Regioni. È una riedizione del “Day Service”, con percorsi dedicati e agende protette per i pazienti cronici e oncologici. L’obiettivo è evitare le “code indifferenziate” e garantire continuità assistenziale. Ma il progetto, per ora, è in fase di promessa, non di standard nazionale.
Intanto, la digitalizzazione avanza a rilento. Il Fascicolo Sanitario Elettronico, che dovrebbe rappresentare la chiave per superare i divari regionali, è ancora uno strumento parziale. In molte Regioni non è pienamente operativo, in altre manca l’alimentazione automatica o l’interoperabilità. Il Governo ha stanziato risorse (oltre 600 milioni di euro), ma i nodi sono culturali e organizzativi, non solo finanziari.