Pensioni a 64 anni, cos’è la libertà di cui parla Durigon
- 7 Agosto 2025
- Welfare
Fissare a 64 anni l’età per la pensione, anche per i lavoratori nel sistema misto. È la proposta rilanciata dalla Lega e sostenuta dal sottosegretario al Lavoro, Claudio Durigon, che ha dichiarato, in un’intervista a Repubblica, l’intenzione di intervenire già nella prossima legge di bilancio per bloccare l’aumento automatico dei requisiti previsto nel 2027 e avviare una revisione strutturale del sistema.
L’ipotesi si inserisce in un contesto segnato da un’età legale di uscita tra le più alte d’Europa, da deroghe transitorie come Quota 103 e Opzione Donna, e da una crescente distanza tra norme previdenziali e realtà lavorative. La misura esiste già per i lavoratori interamente contributivi, ma con requisiti economici molto restrittivi. L’obiettivo politico è estenderla a una platea più ampia, valutando compatibilità finanziarie, regole europee e impatto sulla tenuta complessiva del sistema pensionistico.
E se da un lato Durigon assicura che “troveremo le risorse”, dall’altro è proprio il nodo finanziario a bloccare qualunque intervento strutturale sul sistema previdenziale. La Ragioneria generale dello Stato, secondo quanto riferito dal sottosegretario, avrebbe stimato un costo iniziale di circa 200 milioni per sterilizzare l’aumento automatico dell’età pensionabile previsto per il 2027. Ma nessuna cifra ufficiale è stata ancora messa nero su bianco.
Il progetto della Lega è di impedire che da gennaio 2027 scatti l’aumento di tre mesi dell’età pensionabile legato all’aspettativa di vita. Per Durigon, quel meccanismo è “perverso” e “non serve innalzare ulteriormente l’età: siamo già ai livelli massimi in Europa”. Il blocco immediato, secondo il disegno leghista, andrebbe poi accompagnato da una revisione strutturale nel 2029.
Oggi in Italia si va in pensione a 67 anni
Oggi, in Italia, l’età ordinaria di accesso alla pensione di vecchiaia è fissata a 67 anni, con almeno 20 anni di contributi. Questo requisito vale sia per il sistema retributivo che per quello contributivo, e viene aggiornato automaticamente ogni due anni sulla base delle aspettative di vita calcolate dall’Istat. È proprio questo meccanismo che, salvo interventi, farà salire di tre mesi l’età pensionabile nel 2027 e, potenzialmente, di nuovo nel 2029.
Per la pensione anticipata, invece, le regole cambiano. I lavoratori possono uscire dal mondo del lavoro con 42 anni e 10 mesi di contributi (41 e 10 mesi per le donne), indipendentemente dall’età anagrafica. Anche in questo caso, è prevista una finestra mobile di tre mesi. Ma i requisiti per la pensione anticipata non sono soggetti all’adeguamento alla speranza di vita, almeno fino al 2026.
Esistono poi alcune formule “flessibili”, come Quota 103 (62 anni + 41 anni di contributi), in vigore nel 2024 ma con scadenza annuale, o l’Ape Sociale, pensata per categorie di lavoratori in condizioni svantaggiate, come caregiver, disoccupati, invalidi civili e addetti a mansioni gravose. E ancora Opzione Donna, il canale di uscita anticipata per le lavoratrici, oggi limitato a condizioni molto restrittive: 35 anni di contributi e 61 anni d’età, ma solo per donne caregiver, invalide o licenziate.
Il quadro complessivo è quindi segnato da una forte rigidità, ma anche da numerose deroghe e sperimentazioni, quasi tutte a termine. Una situazione che genera incertezza nei lavoratori e malumori trasversali tra le forze politiche. Chi denuncia un eccesso di flessibilità “a tempo”, chi invece evidenzia come la direzione generale del sistema resti inchiodata a un’età pensionabile tra le più alte d’Europa.
Chi può già andare in pensione a 64 anni
Nonostante le dichiarazioni politiche e i proclami di semplificazione, oggi in Italia andare in pensione a 64 anni è possibile solo in casi molto specifici, e con condizioni che di fatto escludono la maggior parte dei lavoratori. Il riferimento è alla cosiddetta “pensione anticipata contributiva”, una possibilità già prevista dalla normativa per i lavoratori che hanno versato contributi solo dal 1° gennaio 1996 in poi, i cosiddetti “contributivi puri”.
Per accedere a questo canale servono tre requisiti chiave:
- almeno 20 anni di contributi effettivi;
- età anagrafica di almeno 64 anni;
- un assegno pensionistico pari almeno a 2,8 volte l’assegno sociale (cioè, circa 1.703 euro lordi al mese nel 2025).
Il problema è proprio quest’ultimo punto. Una pensione di almeno 1.703 euro lordi a fronte di 20 anni di contributi è difficilmente raggiungibile, a meno di aver avuto carriere continuative, retribuzioni medio-alte e contributi versati con costanza per decenni.
Questa soglia di reddito è stata introdotta per garantire la “sostenibilità” del trattamento anticipato nel sistema contributivo. L’idea era di evitare che l’uscita a 64 anni si trasformasse in pensioni troppo basse. Ma nella realtà del lavoro italiano — fatta di salari stagnanti, discontinuità occupazionale, contratti part-time e intermittenti — rappresenta una barriera insormontabile. La Cgil sottolinea da tempo come la pensione a 64 anni sia “una possibilità teorica, resa irraggiungibile da requisiti economici incompatibili con la realtà lavorativa di ampie fasce di popolazione”.
A essere penalizzati sono soprattutto i lavoratori autonomi, le donne con carriere interrotte, e i giovani entrati tardi nel mercato del lavoro. La soglia del 2,8x era stata concepita per evitare che i pensionati anticipati si trovassero con assegni troppo bassi, ma oggi si rivela controproducente.
Cosa cambierebbe con un’estensione ai lavoratori nel sistema misto
Il vero nodo politico e tecnico è quello che la Lega ha rilanciato nei giorni scorsi: estendere la possibilità di uscire a 64 anni anche ai lavoratori iscritti al sistema misto, cioè la grande maggioranza di chi lavora oggi. Parliamo di chi ha maturato contributi sia prima che dopo il 1996, e che quindi non può accedere alla pensione anticipata contributiva.
Per Durigon, questa estensione rappresenterebbe “la vera soglia di libertà pensionistica” per tutti. L’idea è quella di unificare i criteri e permettere l’uscita a 64 anni anche per chi ha carriere ibride, magari iniziate prima della riforma Dini e proseguite nel contributivo. Ma quali sarebbero i criteri d’accesso in questo scenario? Le opzioni in discussione, ancora informali, sono diverse:
- mantenere i 64 anni come soglia anagrafica ma con requisiti contributivi più alti (25 o 30 anni);
- introdurre penalizzazioni percentuali sull’assegno per ogni anno di anticipo;
- abbassare la soglia economica attualmente prevista per i contributivi puri;
- usare il Tfr per alimentare una rendita integrativa, che sommata alla pensione principale consenta di raggiungere una soglia minima.
In ogni caso, l’impatto sui conti pubblici sarebbe rilevante. Le stime informali oscillano tra 5 e 7 miliardi di euro all’anno a regime, ma molto dipenderebbe dalla platea effettivamente coinvolta e dai meccanismi selettivi previsti. Il governo per ora non ha diffuso simulazioni dettagliate. Il sottosegretario parla solo di una “valutazione tecnica in corso da parte del Mef”, ma nessuna cifra è stata ufficializzata.
Inoltre, rimane aperto il tema delle compatibilità europee. L’Italia è già osservata speciale da Bruxelles per la tenuta della spesa pensionistica in rapporto al Pil. Una riforma che allarga l’uscita anticipata potrebbe innescare nuovi rilievi, a meno che non sia accompagnata da forme compensative, come una maggiore flessibilità attuariale (cioè pensioni più basse per chi esce prima) o un potenziamento della previdenza integrativa.
Le critiche
Le reazioni sindacali e parlamentari alla proposta della Lega non si sono fatte attendere. La Cgil ha criticato duramente l’operazione, accusando l’esecutivo di alimentare una narrazione fuorviante. “Altro che superare la legge Monti-Fornero, questo governo è riuscito a peggiorarla in ogni aspetto”, ha dichiarato la segretaria confederale Lara Ghiglione, sottolineando come il meccanismo di adeguamento automatico dell’età pensionabile alla speranza di vita non sia stato introdotto dalla riforma del 2011, ma dal governo Berlusconi nel 2010. Per la dirigente sindacale, parlare oggi di “meccanismo perverso” significa rinnegare scelte che sono state sostenute o non contrastate nel tempo dagli stessi partiti che ora promettono di modificarle.
Sul tema dell’uscita a 64 anni, la Cgil denuncia l’assenza di interventi concreti: “Non è stata introdotta da questo esecutivo, ma lo stesso l’ha resa praticamente irraggiungibile”, afferma Ghiglione, evidenziando come il vincolo dell’assegno minimo di 2,8 volte l’assegno sociale rappresenti un ostacolo insormontabile per lavoratori con carriere intermittenti, redditi bassi e forti disparità di genere. Al centro delle critiche anche la gestione di Opzione Donna, la cui riformulazione è stata definita un “vero e proprio stravolgimento normativo” che ha negato a molte lavoratrici una via di uscita anticipata dignitosa. Il governo, secondo la Cgil, non ha mai motivato in modo credibile le restrizioni introdotte, limitandosi a parlare di “calo fisiologico” delle domande.
Critiche altrettanto nette arrivano dai gruppi di opposizione. Il deputato Franco Mari (AVS) accusa l’esecutivo di fare “propaganda sulla pelle delle persone”, sostenendo che la proposta leghista, priva di coperture certe, finirà per abbassare gli assegni futuri. Arturo Scotto, capogruppo Pd in Commissione Lavoro, definisce la sospensione del prossimo scatto legato alla speranza di vita “una toppa”, e contesta la scelta di posticipare qualsiasi intervento strutturale al 2029, cioè oltre la prossima scadenza elettorale. Anche Chiara Appendino (M5S) attacca sul piano della coerenza politica, accusando il governo di aver reso Opzione Donna inutilizzabile, per poi attribuirne il crollo a un andamento naturale: “Ripristinatela com’era e vedrete che funzionerà”, ha affermato.