I lavoratori ventenni rischiano la povertà quasi quattro volte di più dei cinquantenni
- 05/05/2025
- Popolazione
Il 30 aprile 2025, mentre il Paese si preparava a celebrare il Primo Maggio, nuovi dati hanno riacceso i riflettori su una realtà allarmante: in Italia il lavoro non garantisce più un’esistenza dignitosa. Le statistiche più recenti svelano un divario generazionale drammatico, con i lavoratori ventenni che rischiano la povertà quasi quattro volte di più rispetto ai cinquantenni. Acli, Caf-Acli e Iref hanno assegnato alla loro ultima ricerca un titolo eloquente: “Un lavoro non basta”. Non a caso, gli italiani sono tra i più stakanovisti d’Europa (e non per scelta).
Il divario generazionale nella povertà lavorativa
Come accennato, la ricerca diffusa alla vigilia del 1° maggio dimostra la condizione di vulnerabilità economica nonostante l’occupazione colpisce con particolare durezza i più giovani, che tornano ad avere percentuali in linea con il dato generale solo tra i trenta e i quaranta anni. Il lavoro povero rappresenta la principale causa delle disuguaglianze economiche. Secondo i ricercatori dell’Istat, circa il 7,6% dei lavoratori italiani si trova in una condizione di “povertà lavorativa”, +4,9% rispetto al 2014. Stando alle tabelle Eurostat, pubblicate a fine aprile scorso, nel 2024 gli occupati con un reddito inferiore al 60% di quello mediano nazionale al netto dei trasferimenti sociali sono stati il 9%, in aumento dall’8,7% del 2023 mentre, tra i maggiorenni impiegati almeno per metà anno, quelli a rischio povertà sono addirittura il 10,2%, quasi il triplo della Germania (3,7%) e più della Spagna (9,6%).
L’istituto di statistica europeo conferma il gap generazionale: nella fascia tra i 16 e i 29 anni il rischio di povertà lavorativa raggiunge l’11,8%, mentre scende al 9,3% tra i 55 e i 64 anni. Un divario che riflette le profonde disuguaglianze generazionali nel mercato del lavoro italiano, dove i giovani si trovano spesso intrappolati tra contratti precari, part-time involontario e bassi salari.
Il panorama del lavoro povero in Italia
La situazione appare ancora più grave se si considerano alcune categorie specifiche. I lavoratori autonomi sono particolarmente penalizzati: il 17,2% di loro è a rischio povertà, in aumento rispetto al 15,8% dell’anno precedente. Tra i dipendenti, invece, la percentuale si attesta all’8,4%. Un dato che evidenzia come il lavoro indipendente, spesso celebrato come forma di libertà professionale, possa invece trasformarsi in una trappola di precarietà economica a causa della tassazione sui redditi da lavoro.
Secondo il rapporto Ocse “Taxing Wages 2025”, il cuneo fiscale per un lavoratore (dipendente) single senza figli in Italia ha raggiunto il 47,1% del costo del lavoro nel 2024, dato in crescita rispetto all’anno precedente e nettamente superiore alla media Ocse del 34,9%. Se si guarda all’aliquota dell’imposta sul reddito come percentuale dello stipendio lordo per un lavoratore single al salario medio, l’Italia si colloca al primo posto tra le cinque principali economie europee: 20,9%, contro il 16,7% di Germania e Francia, il 16% della Spagna e il 15,5% del Regno Unito.
Le cause strutturali del fenomeno
Il livello di istruzione gioca un ruolo determinante nella vulnerabilità economica dei lavoratori. Tra chi ha completato solo la scuola dell’obbligo, il rischio di povertà lavorativa raggiunge il 18,2%. La percentuale scende drasticamente al 4,5% tra i laureati, sebbene anche in questo caso si registri un aumento rispetto al 3,6% del 2023. Un segnale preoccupante che indica come neanche la laurea rappresenti più una garanzia contro la povertà lavorativa.
A questi fattori si aggiunge un contesto economico complesso. L’inflazione continua a salire, raggiungendo il 2% ad aprile 2025, in aumento dal 1,9% di marzo. Si tratta del quarto mese consecutivo di incremento della pressione sui prezzi, con il “carrello della spesa” che registra un’accelerazione ancora più marcata, passando dal 2,1% al 2,6%. Un aumento che erode ulteriormente il potere d’acquisto dei lavoratori, già compromesso da tre decenni di stagnazione salariale.
La perdita di potere d’acquisto e i salari insufficienti
Le retribuzioni contrattuali reali di marzo 2025 sono inferiori di circa l’8% rispetto a quelle di gennaio 2021, come evidenziato dall’Istat. Questo crollo del potere d’acquisto, seppur leggermente attenuato negli ultimi mesi, continua a pesare enormemente sui bilanci familiari. Le perdite sono particolarmente marcate nei settori dei servizi privati e della pubblica amministrazione, mentre risultano leggermente inferiori nell’agricoltura e nell’industria.
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha rilevato: “Permangono aspetti di preoccupazione sui livelli salariali, come segnalano i dati statistici e anche l’ultimo Rapporto mondiale 2024-2025 dell’Organizzazione internazionale del lavoro. L’Italia si distingue per una dinamica salariale negativa nel lungo periodo, con salari reali inferiori a quelli del 2008”. Parole che testimoniano come la questione salariale sia diventata una vera emergenza per quella che l’articolo 1 della Costituzione definisce una “Repubblica democratica fondata sul lavoro”.
L’aumento drammatico negli ultimi dieci anni
Il fenomeno del lavoro povero non è improvviso, ma frutto di un deterioramento progressivo delle condizioni lavorative negli ultimi decenni. Secondo i dati Istat, la percentuale di lavoratori italiani in condizione di “povertà lavorativa” è passata dal 4,9% del 2014 al 7,6% attuale, con un incremento del 55% in poco più di dieci anni. Un aumento che riflette trasformazioni profonde nel mercato del lavoro, caratterizzato dalla crescente frammentazione delle carriere e dalla diffusione di forme contrattuali atipiche. La necessità di fare più lavori, unita ai bassi salari, all’inflazione a all’elevato costo dei servizi per l’infanzia, è un fattore rilevante nella scelta di fare o non fare figli. Un circolo vizioso che deteriora il presente e mette a repentaglio il nostro futuro (per approfondire: Dimenticatevi l’Italia da 60 milioni di abitanti).
Secondo i calcoli Acli, la soglia di riferimento per identificare un lavoro a basso reddito è stata fissata al di sotto dei 726 euro al mese, corrispondenti a circa 8.718 euro annui. Una cifra che rende impossibile non solo costruire progetti di vita a lungo termine, ma persino far fronte alle spese quotidiane. Nello studio “Un lavoro non basta”, condotto su un campione di 785.466 contribuenti con reddito da lavoro, l’8,4% dei lavoratori si trova al di sotto di questa soglia che, giova sottolineare, in alcune città italiane non consentirebbe di pagare neppure l’affitto. Nelle città dove più care, sale anche il salario medio ma non sempre in misura proporzionale al costo della vita.
Il divario territoriale e la questione meridionale
Il lavoro a bassa retribuzione si configura sempre più come una questione meridionale. Sono soprattutto le regioni del Sud a mostrare una quota elevata di lavoratori con retribuzioni sotto la soglia di povertà: tra la Basilicata e la Lombardia vi è una differenza di 3 a 1 in termini di probabilità di firmare un contratto a bassa retribuzione. Un divario che riflette le profonde disuguaglianze territoriali del Paese.
Esistono circa 4.000 euro di differenza tra i redditi medi da lavoro nell’Italia dei “poli” – comuni con una dotazione adeguata di servizi essenziali – e i comuni interni, l’Italia dei Paesi da cui ci si deve spostare per accedere a servizi basilari. Un dato che mostra come occupazione remunerativa e buoni servizi procedano di pari passo, in un circolo virtuoso (o vizioso) che può rafforzare o indebolire interi territori.
“Tante famiglie non reggono l’aumento del costo della vita. Salari insufficienti sono una grande questione per l’Italia”, ha affermato il presidente Mattarella durante il discorso del Primo Maggio. Parole che richiamano tutti, istituzioni e parti sociali, a un impegno concreto per garantire che il lavoro torni a essere strumento di emancipazione e dignità. Altrimenti non c’è niente da festeggiare.