Meno microimprese e più lavoratori nelle medie e grandi aziende
- 16/11/2023
- Popolazione
Meno microimprese, più imprese medio-grandi e valore aggiunto. Questo lo scenario che emerge dai primi riscontri della seconda edizione della Rilevazione Multiscopo, parte integrante del Censimento Permanente delle Imprese dell’Istat, che offre un’analisi dettagliata della demografia delle imprese italiane.
Un primo dato rilevante è che tra il 2018 e il 2021 il numero complessivo delle imprese italiane è calato segnando una leggera contrazione dell’1,2%, equivalenti a -12.000 unità, ma, tuttavia, gli addetti sono aumentati del 3,8% e il valore aggiunto addirittura dell’11,6%, indice di come stia cambiando la produzione di beni e servizi anche grazie alle nuove tecnologie.
Allargando l’analisi al periodo 2011-2021, tra le imprese con 3 o più addetti la diminuzione arriva al 2,5%, mentre si registra un incremento del 5,1% del personale impiegato. Questi dati indicano un chiaro cambiamento nella struttura dimensionale delle imprese, con una diminuzione delle microimprese (3-9 addetti) e una crescita delle imprese di medie e grandi dimensioni.
Le microimprese, che nel 2011 costituivano il 79,9% del totale delle imprese e impiegavano il 30,5% della forza lavoro totale, dopo dieci anni rappresentano il 78,9% delle imprese totali e il 28,1% della forza lavoro. D’altra parte, le imprese di medie e grandi dimensioni hanno aumentato la loro quota occupazionale, passando rispettivamente dal 16% e dal 27% nel 2011 al 16,9% e al 29,3% nel 2021.
Lo studio dell’Istat ha coinvolto un campione di circa 280.000 imprese con un organico di 3 o più addetti, rappresentative di un universo di 1.021.618 unità che costituiscono il 22,5% del totale imprenditoriale italiano e generano l’85,1% del valore aggiunto nazionale. Si tratta di un segmento cruciale per la nostra economia che dà lavoro al 74,7% degli addetti e il 96% dei dipendenti presenti sul territorio nazionale.
L’indagine, condotta tra novembre 2022 e marzo 2023, ha focalizzato la sua attenzione sui dati del 2022, fornendo risultati interessanti anche in prospettiva.
Il ruolo delle aziende familiari in Italia
Nel corso del 2022 emerge con chiarezza il consolidamento delle imprese italiane guidate da una persona fisica o a conduzione familiare, che rappresentano oltre 820.000 unità, pari all’80,9% delle imprese con almeno 3 addetti. Questo fenomeno, in crescita rispetto al 2018 (75,2%), si radica soprattutto nelle microimprese (83,3%), attestandosi su quote più basse nelle piccole (74,5%), medie (58,8%), e ancora meno in quelle grandi (41,6%).
Le imprese familiari delineano una presenza predominante nei settori manifatturieri, in particolare nei tradizionali ambiti tessili, abbigliamento, calzature, alimentare e legno, evidenziando una prevalenza nel comparto delle costruzioni (82,4%). Nella sezione dei servizi sono particolarmente radicate nel commercio (84,4%) e nell’alloggio e ristorazione (87,3%).
La gestione di queste imprese è in gran parte affidata all’imprenditore stesso o a un membro della famiglia. Tuttavia, è interessante notare che in imprese di medie e grandi dimensioni si fa ricorso a un manager interno o esterno nel 10,4% dei casi per quelle medie e nel 21,3% per le aziende grandi.
Quello della conduzione familiare rappresenta spesso un limite per la modernizzazione delle nostre imprese. L’analisi dell’Inps evidenzia come dal 2016 al 2022 meno di un’impresa su 10 abbia attraversato almeno un passaggio generazionale. Guardando avanti, il 7,9% delle unità aziendali ritiene di affrontare un passaggio generazionale tra il 2023 e il 2025, un’aspettativa più frequente nelle piccole e medie realtà, che costituiscono poco meno di un sesto del totale.
Anche quando questo passaggio avviene, il ruolo della famiglia proprietaria o controllante si mantiene in oltre due casi su tre.
Imprese italiane tra conservazione e rinnovamento
Guardando agli obiettivi strategici delle imprese per il 2021-2022, l’88,3% delle aziende più grandi (con almeno 10 persone) pone al primo posto la difesa della propria competitività. Questo dato è indice di quanto l’attuale situazione globale pesi sulle aspettative e i progetti degli imprenditori italiani, preoccupati soprattutto a non perdere terreno nel mercato.
Altri obiettivi importanti includono l’aumento dell’attività in Italia (seguito da oltre il 66% delle imprese), soprattutto nei settori come informazione, comunicazione e servizi finanziari, e l’espansione della gamma di prodotti e servizi offerti (obiettivo per il 63,6% delle imprese), specialmente in quelle manifatturiere.
Nonostante i timori per la situazione geopolitica e la crisi demografica, restano aperti gli spiragli verso il futuro. Oltre la metà delle imprese italiane ha come obiettivo principale quello di aumentare gli investimenti in nuove tecnologie, una tendenza evidente soprattutto nell’industria e nei servizi finanziari, assicurativi, sanitari e di assistenza sociale. Inoltre, oltre il 40% di queste aziende sta adottando misure per promuovere la responsabilità sociale e ambientale, cercando di accedere a nuovi segmenti di mercato. Un significativo 36,9% sta attivando collaborazioni con altre imprese, seguendo una moderna dinamica di mercato per cui, più che una minaccia, le altre aziende possono essere dei validi alleati.
Inoltre, circa un’impresa su cinque sta puntando allo sviluppo delle attività all’estero, con una presenza particolarmente marcata nel settore manifatturiero dove circa il 30% delle aziende con almeno 3 addetti è attivo sui mercati internazionali. In media, più del 40% delle imprese manifatturiere sono coinvolte in attività all’estero, superando addirittura il 60% per le imprese nei settori delle bevande, chimica, farmaceutica e dei macchinari.
Fonte: Istat
Le risorse umane e il problema delle competenze
Tra il 2021 e il 2022, il 51,2% delle imprese italiane si è impegnato nella ricerca di nuove risorse umane, con percentuali più alte nelle medie e grandi imprese. È cresciuto soprattutto il settore delle costruzioni dove la ricerca di nuovo personale ha coinvolto il 62,6% delle imprese totali e il 58,5% delle microimprese. Si tratta tuttavia di numeri destinati a cambiare con il definitivo tramonto del Superbonus che ha trainato la crescita del settore.
Tra le aziende con meno di 10 addetti che hanno effettuato nuove assunzioni, due su tre hanno assunto dipendenti con contratto a tempo indeterminato (60,6%), una su due a tempo determinato (53,6%), il 17,1% con rapporto di collaborazione (inclusi i collaboratori esterni con partite Iva) e il 4,2% con contratto di somministrazione. Pur in assenza di un dato certo, è lecito ipotizzare che il numero delle assunzioni a tempo indeterminato sia stato sostenuto anche dagli incentivi messi in campo dai vari governi negli ultimi anni e che, salvo modifiche dell’ultima ora, verranno confermati nella Manovra 2024.
Ma quali sono gli ostacoli alle assunzioni? Rispondere a questa domanda è fondamentale per trovare le cause di uno stallo economico che colpisce soprattutto i giovani italiani, non a caso tra gli ultimi in Europa a lasciare la casa dei propri genitori.
L’analisi dell’Istituto nazionale di statistica dimostra che nel biennio 2021-2022, tra le imprese che hanno preso in considerazione la possibilità di assumere personale:
– il 43,2% delle micro imprese lamenta l’impatto di oneri fiscali e contributivi troppo elevati;
– il 38,2% è preoccupato per l’incertezza sulla sostenibilità futura dei costi delle nuove risorse;
– il 28,8% riconosce difficoltà nel reperimento di personale con le competenze tecniche richieste;
– il 15,2% riscontra invece problemi di natura finanziaria
Al netto delle politiche economiche che rappresentano la chiave di volta del sistema e danno i frutti consistenti nel medio-lungo periodo, quello della competenza è il problema su cui intervenire prontamente.
Ad accusare questa carenza sono soprattutto le imprese di maggiore dimensione e complessità organizzativa dove servono figure professionali con competenze molto specifiche. Le imprese residenti nel Nord e, in particolare, quelle che operano nell’industria in senso stretto nel Nord-est, lamentano più frequentemente la carenza di competenze.
Il tema, tuttavia, riguarda tutto il tessuto economico italiano, dal momento che lamentano difficoltà nel reperire personale con adeguate competenze tecniche, o hard skills:
– il 43,7% delle piccole imprese;
– il 53,1% delle medie imprese;
– il 56,3% delle grandi imprese
Meno presente, ma comunque rilevante, è la carenza di soft skills nei candidati (capacità di lavorare in gruppo, proattività, gestione dello stress), lamentata da oltre la metà delle piccole imprese.
Nel complesso, la difficoltà nel reperire figure professionali con le competenze richieste cresce
all’aumentare del contenuto di tecnologia e conoscenza delle produzioni. La forbice tra domande e offerta si allarga nel campo delle competenze Esg, dove le aziende cercano personale, ma non ci sono abbastanza candidati preparati.
La crisi demografica italiana rischia di aggravare ulteriormente la carenza di personale adatto alle richieste delle imprese e di innescare un effetto domino sull’economia del paese.
Cosa fanno le imprese per attrarre personale qualificato
Nel redigere l’indagine, l’Inps ha chiesto alle imprese con almeno 10 addetti quali pratiche abbiano adottato nel biennio 2021-2022 per attrarre e/o trattenere personale qualificato.
Oltre una impresa su tre tra le piccole (35,2%), una su quattro tra le medie e il 16,5% delle grandi ha risposto di non aver adottato alcuna pratica. Segnali lievemente migliori emergono nei settori dei servizi di informazione e comunicazione e nelle attività finanziarie e assicurative.
Spostando il focus su cosa siano disposte a migliorare nell’offerta di lavoro, tra le piccole imprese, una su tre afferma di essere disposta a concedere incrementi salariali, circa il 30% maggiore flessibilità negli orari di lavoro, una su cinque la garanzia di gradi crescenti di autonomia sul lavoro in relazione a specifiche competenze o mansioni.
Seguono, con percentuali minori, la disponibilità a un maggior coinvolgimento nelle decisioni aziendali e l’accesso a benefit (rispettivamente 13,9% e 13,4%); meno diffusi, tra le piccole, gli incentivi per attività di auto-formazione e crescita professionale, anche esterne all’impresa (11,8%). Queste percentuali crescono significativamente tra le medie e soprattutto le grandi imprese.
Il rapporto con il remote working
Con l’obiettivo di valutare l’adozione del lavoro a distanza nelle imprese, l’Istat ha condotto un’indagine tra le imprese con attività che possono essere svolte da remoto. La prima, lampante, conferma è che i problemi diminuiscono al crescere delle dimensioni aziendali. Infatti, non lamenta alcuna criticità sul remote working:
– il 32,7% delle micro;
– il 29,3% delle piccole imprese;
– il 38% delle grandi imprese, con quote superiori nel comparto dei servizi di mercato
Dunque, per la maggioranza degli imprenditori il lavoro da remoto crea qualche tipo di problema. Tra le cause rilevate dall’indagine, emerge soprattutto la paura di perdere competitività sul mercato, mentre le dotazioni tecnologiche e le competenze digitali dei lavoratori quasi mai rappresentano un ostacolo.
Nello specifico:
– il 21,8% delle imprese teme che il remote working possa avere un impatto negativo sull’efficienza
dei processi produttivi e sulle comunicazioni tra il personale;
– il 17,1% lamenta la difficoltà nel monitorare e valutare il lavoro svolto;
– il 12,7% ha problemi nel gestire i cambiamenti organizzativi nella gestione del personale
Nel complesso, il 35,8% delle aziende italiane riscontra almeno uno di questi tre ostacoli nell’adozione del remote working, con percentuali superiori al 40% per le piccole e medie imprese.
Altri fattori relativi all’assenza di una connessione affidabile e veloce sul territorio (8,3%, soprattutto tra le micro e le piccole) e agli obblighi e adempimenti a carico del datore di lavoro (5,6%) risultano presenti ma meno diffusi. È da segnalare, però, che un terzo delle imprese cita anche la presenza di altri fattori, non specificamente monitorati nel quesito e forse più attinenti alle singole imprese.
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