Tossici, fragili, confusi: ecco i “Maschi veri” secondo Netflix
- 21/05/2025
- Popolazione Trend
C’era una volta il maschio alfa. E c’è ancora, ma è spaesato. Lo trovi con lo sguardo perso nella corsia dei prodotti per la skincare, mentre cerca disperatamente di capire cosa significhi “effetto glow”. Oppure lo vedi a un corso di comunicazione non violenta, mentre prova a smettere di interrompere chi ha davanti. È proprio da qui che parte “Maschi veri”, la nuova serie Netflix che da oggi – 21 maggio – promette di farci ridere, riflettere, e (forse) migliorare.
Massimo, Mattia, Riccardo e Luigi sono quattro quarantenni, amici di lunga data, che si credono padroni del proprio mondo… almeno fino a quando il mondo non cambia. E cambia sul serio. Le loro certezze maschili, costruite tra calcetto del giovedì e frasi fatte ereditate da padri e nonni, crollano una dopo l’altra. Sono loro i “maschi veri” del titolo, ma la serie è tutto tranne che una celebrazione muscolare della virilità. È una presa in giro – intelligente, leggera, ma mai superficiale – di una certa idea di uomo che oggi vacilla sotto il peso delle aspettative contemporanee.
La storia parte con uno schiaffo simbolico: i quattro vengono “invitati” a frequentare un corso di decostruzione della mascolinità. In pratica, una scuola per disimparare tutto quello che credevano di sapere su cosa significhi essere uomini. E se il tono della serie è da comedy brillante, la posta in gioco è tutt’altro che ridicola: Maschi veri affronta con ironia temi come la parità di genere, le relazioni, il senso di inadeguatezza e la paura di mostrarsi fragili.
A interpretare i quattro protagonisti troviamo un quartetto irresistibile: Matteo Martari (Massimo), Maurizio Lastrico (Mattia), Francesco Montanari (Riccardo) e Pietro Sermonti (Luigi). Accanto a loro, le donne della serie – interpretate da Laura Adriani, Thony, Sarah Felberbaum e Alice Lupparelli – non sono comparse nella vita degli uomini, ma motori attivi del cambiamento. Sono complici, catalizzatrici e spesso anche giudici implacabili. E meno male.
La mascolinità in crisi
“Il maschio vero oggi dovrebbe essere in grado di rigettare tutto quello che gli è stato imposto e ripartire”, dice Montanari. Ma come si fa, davvero? In ‘Maschi veri’ con umorismo, autoironia e una sana dose di imbarazzo. Gli otto episodi (prodotti da Matteo Rovere per Groenlandia) non si prendono mai troppo sul serio, e proprio per questo riescono a centrare il bersaglio. Ogni battuta è un piccolo detonatore che fa esplodere una verità scomoda ma necessaria.
A dirigere la serie ci sono Matteo Oleotto e Letizia Lamartire, mentre la penna è quella di Furio Andreotti, Giulia Calenda e Ugo Ripamonti: un team affilato che ha costruito una sceneggiatura ritmata, piena di sorprese e dialoghi che sembrano usciti da una conversazione tra amici al bar… solo che questi amici hanno letto Simone de Beauvoir e Brene Brown.
Il cuore della serie è il corso di decostruzione della mascolinità, una trovata narrativa geniale che permette agli autori di mettere a nudo (spesso letteralmente) i protagonisti. È lì che si parla di emozioni, di ruoli di genere, di consenso, di paternità e di fallimenti. Ma sempre con un piglio brillante che non banalizza mai. Come dice Sermonti, “decostruirsi è divertente”. E infatti si ride molto, soprattutto quando i protagonisti si confrontano con le piccole grandi sfide quotidiane: preparare una cena senza aiuto, capire il concetto di gaslighting (maligna manipolazione psicologica ndr), fare un complimento senza sessismo incorporato.
Lastrico, con la sua comicità genovese e surreale, è una mina vagante che disinnesca i momenti più intensi con battute spiazzanti: “Appena metto il piede fuori dal letto, ho già sbagliato. Se ascoltassi la mia compagna, dovrei estinguermi”. Ma è proprio questo auto-sberleffo che rende i personaggi così umani: sbagliano, si vergognano, provano a migliorare – e noi con loro.
I maschi si mettono in discussione
Uno dei meriti più grandi di Maschi veri è il modo in cui affronta la fragilità maschile, senza trasformarla in un totem da venerare o in un altro stereotipo da aggiornare. Pietro Sermonti, riflettendo sul suo personaggio, dice una cosa illuminante: “Non dobbiamo creare una nuova dittatura della fragilità. Non è un merito, è uno stato che, se vissuto, va affrontato per il bene della collettività”. Il che significa: sì, si può piangere. Ma no, non basta piangere per essere brave persone.
La fragilità non è una medaglia, ma un punto di partenza. E lo stesso vale per l’inadeguatezza, che in questa serie diventa quasi una protagonista invisibile. Mattia (Lastrico) si sente sempre in difetto, mentre Massimo (Martari) tenta disperatamente di mantenere il controllo anche quando tutto crolla. Riccardo (Montanari) cerca risposte nella terapia, mentre Luigi (Sermonti) scopre che leggere autori e autrici fuori dalla sua comfort zone può essere un atto rivoluzionario.
La mascolinità tossica, argomento cardine della serie, viene analizzata attraverso mille sfaccettature. Non è mai urlata, ma raccontata nelle piccole cose: nelle battute sessiste buttate lì “per ridere”, nelle aspettative sul lavoro di cura, nelle dinamiche di coppia che sembrano moderne ma hanno il retrogusto del patriarcato vintage. “Il maschio tossico è dentro ognuno di noi”, dice Lastrico. E no, non è una condanna. È un punto di consapevolezza da cui ripartire.
Un altro merito di Maschi veri è quello di non demonizzare gli uomini, ma di responsabilizzarli. Senza catechismi, senza morale imposta. Lo fa con leggerezza, sì, ma con una serietà di fondo che colpisce. Il pubblico maschile ride, si riconosce, si imbarazza. Quello femminile osserva, talvolta giudica, spesso comprende. Ma alla fine tutti imparano qualcosa.
La cultura come antidoto alla tossicità
Perché una serie come Maschi veri funziona così bene? Perché è colta senza essere intellettuale, popolare senza essere banale. Francesco Montanari cita l’esempio di Javier Bardem, che in un’intervista ha messo al proprio posto un giornalista con un commento sessista. Lastrico sogna un maschio modello Barbero: colto, ironico, capace di parlare a tutti senza arroganza. E poi c’è De André, tirato in ballo per ricordare che le parole – anche quelle delle canzoni – formano le coscienze.
In un momento storico in cui termini come “mascolinità tossica” sono sulla bocca di tutti (e spesso svuotati di significato), la cultura diventa l’arma più potente per capire, per disinnescare, per cambiare. Maschi veri non è solo una serie comica, ma un piccolo manuale di sopravvivenza sentimentale e sociale. E non ha paura di prendersi gioco dei suoi personaggi, proprio perché li ama.
L’arte, del resto, ha questo potere: farci vedere da fuori, costringerci a metterci in discussione, ridendo anche delle nostre contraddizioni più assurde. Ed è qui che la serie centra davvero il bersaglio: nel mostrarci che il cambiamento non passa (solo) per grandi gesti o discorsi ispirati, ma per piccole prese di coscienza quotidiane. Come quella di Luigi, che decide di non voltarsi dall’altra parte. O di Riccardo, che affronta la terapia. O di Mattia, che accetta il fatto che non saper fare la lavatrice non è più una scusa plausibile nel 2025.