Licenziata due volte: prima per la maternità, la seconda dopo l’aborto
- 29 Maggio 2025
- Popolazione Welfare
A Granarolo dell’Emilia, in provincia di Bologna, una donna di 35 anni è stata licenziata due volte nel giro di poche settimane dalla I-Tech Industries, azienda leader nel settore delle tecnologie per il benessere del corpo. Prima per la gravidanza, poi dopo l’aborto spontaneo. Un caso che la Fiom-Cgil di Bologna definisce senza mezzi termini “discriminatorio” e che accede i riflettori sul rapporto tra maternità e lavoro a pochi giorni dalla condanna di Dana, la multinazionale che aveva licenziato una donna dopo l’annuncio della sua maternità a rischio.
Se lavori, la maternità è un problema
La vicenda inizia il 22 aprile 2025. La lavoratrice, assunta appena otto mesi prima con un contratto del settore metalmeccanico, riceve una lettera di licenziamento per “giustificato motivo oggettivo”. La motivazione ufficiale è l’esternalizzazione della sua mansione, che sarebbe stata affidata a un’azienda terza. Una giustificazione fittizia secondo la Fiom-Cgil: la donna era incinta e aveva appena concluso un percorso di procreazione medicalmente assistita e questa, secondo il sindacato, è la vera causa del licenziamento.
“L’azienda era pienamente informata e consapevole dello stato della lavoratrice”, denuncia Alessandro Caprara della Fiom-Cgil di Bologna a Fanpage.it. Una consapevolezza che rende il licenziamento ancora più grave, considerando che la normativa italiana vieta categoricamente di licenziare una donna dall’inizio della gravidanza fino al compimento del primo anno di età del bambino.
La reazione sindacale è immediata. La Fiom impugna il licenziamento e ottenuto un risultato che sembra definitivo: il 24 aprile l’azienda revoca la decisione e reintegra la lavoratrice. Una vittoria che però si rivelerà effimera.
L’aborto e il secondo licenziamento
Il 6 maggio la situazione precipita. Durante una visita medica, alla donna viene prospettato un rischio concreto di aborto. Informa immediatamente l’azienda che il 9 maggio si sarebbe recata nuovamente in ospedale. Purtroppo, l’aborto si verifica davvero.
Il 12 maggio, giorno del rientro al lavoro dopo la tragedia personale, l’azienda consegna alla donna una seconda lettera di licenziamento. Identica alla precedente, con la stessa motivazione economica. “L’aspetto più drammatico della vicenda è che l’azienda nei fatti non ha mai consentito alla lavoratrice di riprendere l’attività lavorativa”, spiega la Fiom.
Cosa dice la legge
La legislazione italiana in materia di tutela delle lavoratrici madri è chiara. Il decreto legislativo 151/2001, noto come Testo Unico sulla maternità e paternità, stabilisce che è vietato licenziare una donna dall’inizio del periodo di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino.
Questa tutela opera in modo oggettivo, indipendentemente dalla preventiva comunicazione della lavoratrice all’azienda. Anche se il datore di lavoro non era a conoscenza della gravidanza, il licenziamento rimane nullo se la donna fornisce successivamente un certificato che dimostri lo stato di gravidanza al momento del licenziamento. Le conseguenze per l’azienda che viola questa norma sono severe: oltra a verificarsi la nullità automatica del licenziamento, la lavoratrice ha diritto al reintegro e al pagamento di tutte le retribuzioni dal momento del licenziamento fino al rientro.
Le eccezioni alla regola: quando il licenziamento è possibile
Esistono tuttavia delle eccezioni rigorosamente previste dalla legge. Una lavoratrice in gravidanza può essere licenziata solo in caso di giusta causa (colpa grave della lavoratrice), cessazione dell’attività dell’azienda, fine del contratto a tempo determinato o esito negativo nel periodo di prova.
Giova ricordare che, tranne in casi particolari come la maternità, in Italia è possibile licenziare lavoratori assunti a tempo indeterminato per giustificato motivo oggettivo: ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento dell’azienda, tipicamente per difficoltà economiche. Per cambiare questa norma, introdotta con il Jobs Act del governo Renzi, è stato indetto uno dei cinque referendum abrogativi dell’8 e 9 giugno.
Il provvedimento del 2015 ha modificato cancellato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, rendendo più difficile per i lavoratori ottenere il reintegro in caso di licenziamento illegittimo. Anche se per le lavoratrici madri la tutela rimane più forte, le aziende spesso tentano di aggirare la normativa con motivazioni apparentemente legittime, soprattutto adducendo le difficoltà economiche dell’impresa come causa del licenziamento.
Nel caso della I-Tech Industries, non sembra sussistere nessuna delle condizioni eccezionali che renderebbero legittimo il licenziamento della donna. “Mai, durante gli incontri dei mesi scorsi, l’azienda ha fatto cenno a problemi economici, riorganizzazioni aziendali, esternalizzazioni”, sottolinea Caprara. Anzi, fino a poco tempo prima erano aperte posizioni per ruoli simili a quello della lavoratrice licenziata.
I numeri della discriminazione
Secondo i dati dell’Ispettorato del lavoro, in Italia si verificano ancora troppi casi di licenziamenti discriminatori legati alla maternità. Nel 2023, sono state accertate oltre 500 violazioni della normativa sulla tutela delle lavoratrici madri, ma il numero reale potrebbe essere molto più alto considerando i casi non denunciati.
La discriminazione non si limita al licenziamento diretto. Spesso le donne subiscono demansionamenti, trasferimenti punitivi o pressioni psicologiche che le spingono alle dimissioni volontarie, aggirando così le tutele legali. Situazioni che costringono le mamme italiane sempre più equilibriste nel mondo del lavoro e tra le mura di casa.
Le conseguenze psicologiche
Oltre al danno economico e professionale, casi come quello della I-Tech Industries provocano ferite psicologiche profonde. Perdere il lavoro dopo un aborto spontaneo significa vedere amplificato un dolore già devastante. “È una situazione delicatissima”, commenta Caprara. “Siamo davanti a un’azienda che considera i lavoratori come merce, senza alcun riconoscimento dei loro diritti fondamentali”. Secondo Caprara, se al referendum vincesse il sì, “cambierebbe l’approccio delle aziende verso i licenziamenti”. Occorre però che il voto sia valido, ovvero che vada a votare almeno il 50%+1 degli aventi diritto, situazione rara nella storia del Paese.
Il referendum mira a restituire ai lavoratori la possibilità di essere reintegrati in caso di licenziamento illegittimo.
Intanto, la lavoratrice licenziata due volte ha deciso di impugnare in giudizio il secondo licenziamento, presentando un’impugnazione stragiudiziale e preparando un ricorso da depositare presso il Tribunale del Lavoro. La battaglia legale si preannuncia complessa ma necessaria, non solo per ottenere giustizia nel caso specifico, ma per stabilire un precedente importante per tutte le donne che ancora devono scegliere se avere dei figli o una carriera.