I nostri cervelli sono fatti per essere collegati: lo studio di Huw Green
- 22/07/2024
- Popolazione
“Nessuno si salva da solo” non è solo il titolo di un romanzo di Margaret Mazzantini, ma è anche il risultato raggiunto da uno studio pubblicato sul The Guardian con un titolo eloquente: “The big idea: why your brain needs other people” (La grande idea: perché il tuo cervello ha bisogno di altre persone”).
Per l’autore Huw Green, psicologo clinico e neuropsicologo, le relazioni con gli altri sono così potenti da influenzare i nostri ricordi, la nostra parte cognitiva. “Il lavoro clinico e l’esperienza di vita hanno rivelato i modi in cui, sorprendentemente, la cognizione è anche qualcosa che avviene all’interno delle nostre relazioni con altre persone. Sembra controintuitivo nell’era delle neuroscienze, ma penso sempre di più che quanto sei cognitivamente compromesso sia una funzione del contesto sociale in cui ti trovi”, scrive sul quotidiano britannico.
I risvolti possono essere sconvolgenti. Secondo Green, le disabilità cognitive non sono solo il risultato di deficit fisici o mentali, ma anche delle barriere sociali. Ne consegue che un contesto sociale favorevole può migliorare significativamente la qualità della vita di chi ha disabilità cognitive.
Emozione e pensiero, irrazionalità e razionalità si fondono: le nostre relazioni forniscono il contesto e la motivazione per pensare, deliberare e prendere decisioni.
La teoria di Green sfida quella moderna secondo cui la cognizione sia un processo puramente individuale e meccanico. “Questo legame cervello-cognizione è un principio sempre più centrale nella nostra cultura scientifica, ma con esso viene la sensazione che dovremmo capirci come analoghi alle macchine. Rimuovi una parte dell’hardware e il software è danneggiato.
Più tempo passo con i pazienti, tuttavia, più diventa evidente che questo è solo una parte del quadro”.
Cosa ha scoperto Green nelle sue analisi?
Lo studio di Huw Green
La teoria dello psicologo britannico è la possibilità per riflettere sull’evoluzione della nostra società, anche in termini demografici. Secondo alcuni esperti di psicologia e di demografia, infatti, la prima causa della crisi di natalità dei Paesi più sviluppati è lo svuotamento dei rapporti personali. Il mettere al primo posto sé stessi e il proprio lavoro, avendo poi poca energia da dedicare agli altri, famiglia inclusa.
Più che una cultura nemica dei figli, una cultura deumanizzata dai ritmi sempre più serrati. Anche il costante processo di urbanizzazione e l’allontanamento dalle campagne favorirebbe la “deumanizzazione” delle persone, senza contare che l’eccessivo stress, spesso correlato al lavoro, diminuisce la libido e può avere conseguenze sulla fertilità e sulla gravidanza.
Secondo alcuni esperti, dunque, la priorità è capire quale sia il nostro ruolo all’interno del mondo e come possiamo vivere meglio grazie alle relazioni con gli altri, e non “nonostante” le relazioni con gli altri.
“Uno dei miei compiti clinici – spiega Huw Green – è fare richieste insolite alle persone per scoprire sintomi cognitivi che altrimenti passerebbero inosservati. Una volta ho intervistato un uomo con una grave perdita di memoria dopo un infortunio causato da una mancanza di ossigeno al cervello. Sua moglie, presente all’intervista, mi ha preso da parte dopo. Era scioccata. Non si era resa conto di quanto fosse grave, perché, semplicemente chiacchierando con lui, non era evidente che avesse difficoltà a creare nuovi ricordi”. A questo punto lo psicologo spiega il primo tassello della sua “grande idea”: se la nostra capacità di pensare dipende dalle richieste che la nostra vita ci pone, allo stesso modo viene influenzata dalle domande che gli altri ci fanno o che noi facciamo agli altri.
E anche quando non è il momento delle domande, possiamo fare la differenza nella vita delle altre persone.
“Quando ci siamo trasferiti nella nostra attuale casa con la mia giovane famiglia, – scrive ancora lo psicologo Huw Green – una delle nostre anziane vicine, Emily, è venuta a presentarsi. Era calorosa e amichevole e giocava con i nostri figli in un modo adorabile ed esagerato. Spesso ripeteva le stesse cose nelle nostre conversazioni. Mi sono chiesto se potesse avere la demenza e, col passare del tempo, la mia impressione è stata confermata. Mi vedeva quasi quotidianamente mentre riportavo i bambini a casa da scuola, ma ogni volta che la incontravamo si presentava come se non ci fossimo mai incontrati prima. Per noi non era un problema. Adorava i bambini e loro adoravano lei. Rideva e cantava con loro, a volte nel mezzo della strada. Mi preoccupavo per lei, ma sembrava sempre stare bene e sapevo che suo figlio viveva nelle vicinanze e si prendeva cura dei suoi bisogni fondamentali”.
In questa fase, lo psicologo descrive una situazione patologica, per cui, clinicamente si può fare ben poco. “In un certo senso Emily era compromessa. Non riusciva a ricordare chi eravamo e era socialmente disinibita. Ma in un altro senso, il contesto sociale ha notevolmente mitigato la sua compromissione. Non solo i suoi problemi di memoria erano mascherati, ma aveva trovato uno spazio in cui non erano importanti e dove la sua personalità gioiosa e la sua esuberanza contagiosa potevano prosperare. Il modello sociale della disabilità suggerisce che le persone sono disabilitate dalle barriere nella società piuttosto che dalla loro differenza fisica o mentale”.
Insomma, anche con una evidente patologia, ciascuno può trovare il proprio ruolo e dare il proprio contributo alla società a patto che viva delle relazioni umane forti.
L’esempio di Okinawa: vivere insieme per vivere meglio
La “teoria” di Green trova ulteriore conferma nell’esempio dell’isola di Okinawa. Qui le persone vivono mediamente 13 anni in più rispetto al resto del mondo, e non a caso gli anziani hanno un ruolo attivo all’interno della società.
La gemma preziosa della vita sociale di Okinawa sono i moai, un gruppo di circa cinque persone che vivono la vita insieme. I membri di questa struttura sociale crescono insieme, si incontrano periodicamente, discutono su tematiche comuni e ridono molto. In definitiva, i moai sono una specie di seconda famiglia dove ci si offre vicendevolmente assistenza emotiva, sociale e anche finanziaria. Questa struttura non sostituisce la famiglia di sangue, la affianca. Nei moai il benessere del gruppo viene concepito come somma del benessere di tutti gli individui.
Con un’aspettativa di età così alta (85 anni) è fondamentale non lasciare gli anziani indietro. Per questo, al centro della loro cultura c’è quello di mantenere sempre, a qualsiasi età, un ikigai, uno scopo nella vita. Come riporta National Geographic, spesso gli anziani di Okinawa si mantengono attivi con l’artigianato locale di tessitura delle stoffe basho-fu. La pulizia delle fibre e la procedura di avvolgimento del filo richiede una dedizione, che in parte ricorda la passione e l’impegno con cui gli anziani si ritagliano ancora un ruolo nella società in alcuni piccoli borghi italiani.
Non è solo un modo per rimanere socialmente attivi, ma è anche un’opportunità per le tessitrici di contribuire a migliorare il reddito proprio e degli altri.
Uno spunto che non dovremmo ignorare in un’Italia sempre più anziana, ma con gli anziani dimenticati e messi al margine della società.
Le prove quotidiane
Anche la nostra società, spiega lo psicologo, rifletta l’importanza degli altri nella nostra vita. Che è poi la base della democrazia: “Deliberiamo insieme per arrivare a decisioni importanti, discutiamo idee per metterle alla prova. Questi processi sono radicati nelle nostre istituzioni politiche. Le democrazie presumono che decisioni morali e politiche significative siano migliori se prese attraverso processi interpersonali di dibattito, piuttosto che decise dai singoli individui”, ricorda Green.
Ciascuno di noi è uno ζῷον πολιτικὸν (Leggi: zôon politikòn), un “animale politico”, diceva il filosofo greco Aristotele già nel IV secolo a.C.
Anche senza scomodare i concetti più alti, la nostra vita ci ricorda tutti i giorni quanto siano importanti gli altri per le scelte che prendiamo, dalle più piccole a quelle che svoltano una intera esistenza sulla terra.
“Considera quei momenti in cui la presenza degli altri ti ha ricordato un appuntamento, un nome, o semplicemente ti ha incoraggiato a concentrare la tua attenzione in modo diverso. Le nostre relazioni forniscono un contesto in cui pensare e una ragione per pensare”, spiega lo psicologo Huw Green.
Il pensiero di Lev Vygotskij
La psicologia è da tempo affascinata dall’”elemento sociale” nel pensiero. Green ricorda che circa un secolo fa, lo psicologo sovietico Lev Vygotskij osservò come l’emergere del pensiero individuale possa essere inteso come l’internalizzazione del dialogo con le altre persone.
In effetti, spesso i bambini piccoli che giocano da soli parlano a sé stessi riecheggiando quelle che sembrano le istruzioni degli adulti. Alcuni direbbero “scimmiottando”, ma in realtà il discorso è più profondo. Queste istruzioni somigliano chiaramente alla struttura verbale che è stata loro fornita dai caregiver. Imparare a pensare per sé stessi è un processo di rappresentazione dei contributi degli altri, spiegava lo psicologo sovietico Lev Vygotskij. In altre parole, questo processo dimostra come impariamo a pensare attraverso le interazioni con gli altri.
I possibili risvolti negativi
Chiaramente, non ci sono solo influenze positive. A tal proposito, Huw Green spiega che è sorprendente quanto una persona voglia evitare un argomento possa renderci difficile anche solo pensare a quell’argomento.
In altre parole, il livello di compromissione cognitiva di una persona dipende in gran parte dai supporti sociali di cui dispone. Se una persona ha un forte sostegno sociale, le difficoltà cognitive possono essere mitigate. Tuttavia, questo non significa che i problemi causati da lesioni cerebrali o dalla demenza possano essere completamente eliminati. I danni al cervello portano inevitabilmente a difficoltà nel pensiero, ma la gravità di queste difficoltà è influenzata anche dalle persone che ci circondano.
In definitiva, la cognizione non è un processo che avviene esclusivamente all’interno del nostro cervello, ma è strettamente legata alle nostre interazioni sociali. “Parlare di compromissione cognitiva significa parlare di qualcosa che non potrebbe esistere allo stesso modo senza le altre persone che popolano le nostre vite”, conclude Huw Green.
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