Doppia maternità, sentenza storica per le famiglie arcobaleno. Cosa prevedono gli altri Paesi europei?
- 22/05/2025
- Popolazione
Il 22 maggio 2025 è diventata una data storica per le famiglie arcobaleno d’Italia: con la sentenza numero 68, depositata oggi, la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale il divieto per la “madre intenzionale” di riconoscere come proprio il figlio nato in Italia da procreazione medicalmente assistita (Pma) legittimamente praticata all’estero.
La decisione risponde alle questioni sollevate dal Tribunale di Lucca e stabilisce che i bambini nati in Italia grazie alla procreazione medicalmente assistita effettuata all’estero hanno diritto a essere riconosciuti come figli di entrambe le madri e possono essere iscritti all’anagrafe con questo status fin dalla nascita.
La sentenza, di portata storica, consolida l’orientamento giurisprudenziale degli ultimi anni. Il 15 febbraio 2024 la Corte d’Appello di Roma aveva confermato la decisione del Tribunale del 2022, dichiarando illegittimo il decreto del ministero dell’Interno del 2019, allora presieduto da Matteo Salvini, laddove imponeva la dicitura “padre” e “madre” sulla carta d’identità dei minori, invece di “genitore 1” e “genitore 2”. La sentenza di primo grado era stata impugnata dal Viminale, che riteneva ingiusta questa dicitura affermando la necessità di un padre ed una madre per ciascun bambino. L’appello è stato però respinto e il ministero condannato a pagare le spese processuali, nonché a rilasciare un documento conforme alla reale composizione della famiglia.
Con la sentenza di oggi, la Corte costituzionale ha precisato che l’attuale impedimento per la “madre intenzionale” viola gli articoli 2, 3 e 30 della Costituzione: danneggia l’identità personale del minore, nega un riconoscimento giuridico stabile sin dalla nascita e contrasta con il principio di uguaglianza, senza giustificazioni costituzionali valide.
Le motivazioni della sentenza
La dichiarazione di illegittimità costituzionale si fonda su due principi cardine: la responsabilità derivante dall’impegno comune che una coppia si assume quando decide di ricorrere alla Pma per avere un figlio – impegno dal quale nessuno dei due genitori può sottrarsi – e la centralità dell’interesse del minore a vedere riconosciuti i propri diritti nei confronti di entrambi i genitori.
Il mancato riconoscimento fin dalla nascita compromette il diritto del minore a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, a ricevere cura, educazione e assistenza morale, nonché a conservare legami significativi con i rispettivi parenti.
Con questa sentenza, la Corte sconfessa di fatto i disconoscimenti chiesti dal governo Meloni nel 2023 tramite una circolare del ministero dell’Interno che avevano portato a togliere il riconoscimento alla seconda mamma di molti bambini nati da coppie lesbiche, come nel caso di Padova.
Ok a due madri, il commento di Roccella
La ministra per la Famiglia, Natalità e Pari Opportunità, Eugenia Roccella, ha commentato così la decisione della Consulta: “Cancellare per scelta dalla vita dei bambini il papà non potremo mai considerarlo un progresso sulla via dei diritti, ma la sottrazione al bambino di uno dei suoi diritti fondamentali”.
La questione cambia per le donne single
Ok a Genitore 1 e Genitore 2, dunque, ma non può esserci solo il Genitore 1. In una sentenza successiva, la numero 69 pubblicata sempre oggi, i giudici hanno stabilito che vietare l’accesso alla Pma alle donne single è una “scelta legislativa” che non è “manifestamente irragionevole e sproporzionata” e non viola la Costituzione.
Secondo i giudici, la legge sull’accesso alla procreazione medicalmente assistita ha importanti implicazioni bioetiche e significativi riflessi sociali sui rapporti interpersonali e familiari. Per tale ragione, a meno che non sia manifestamente incostituzionale (come nel caso dei figli delle coppie lesbiche), è la politica che deve decidere. “Il legislatore può estendere la Pma alle donne single, ma il divieto è ragionevole”, spiega la Consulta.
Cosa succede nel resto d’Europa?
La sentenza della Consulta allinea parzialmente l’Italia ad altri Paesi europei dove il riconoscimento delle famiglie omogenitoriali è già realtà, ma il quadro complessivo resta frammentato.
In Spagna, Portogallo, Francia, Regno Unito, Irlanda, Islanda, Belgio, Paesi Bassi, Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia, Germania, Svizzera, Austria e Malta il sesso dei genitori non conta: anche le coppie di donne sposate o conviventi possono ricorrere alla fecondazione assistita eterologa e avere un figlio con il seme di un donatore. La compagna della donna che porta avanti la gravidanza (chiamata madre intenzionale) firma il consenso informato alla fecondazione eterologa, alla nascita è riconosciuta come secondo genitore e non può più disconoscere il figlio.
In questi Paesi, il bambino che nasce con l’eterologa da una coppia di donne viene registrato come figlio di entrambe con un semplice modulo, esattamente come succede per tutti gli altri bambini. Fa eccezione la Germania, dove attualmente la legge prevede che la seconda madre riconosca il figlio con la stepchild adoption (l’adozione del figlio del partner), ma c’è la volontà politica di introdurre una legge simile a quelle degli altri Paesi europei.
La posizione delle istituzioni Ue
La sentenza della Consulta è coerente con il contesto europeo. Nel dicembre 2022 la Commissione Ue ha proposto un regolamento per armonizzare le norme di diritto internazionale privato sulla genitorialità. Il testo prevede che “se sei genitore in un Paese, lo sei in tutti i Paesi dell’Unione europea”, a prescindere dal modo in cui i figli siano stati concepiti e dall’orientamento sessuale della famiglia che li ha accolti.
L’allora commissario Ue per la giustizia, Didier Reynders, ha sottolineato che la proposta è incentrata sulla “tutela dei diritti di due milioni di bambini che rischiano di non vedersi riconoscere il legame con i genitori in altri Stati membri”, e che il mancato riconoscimento della filiazione “può avere effetti negativi importanti per i diritti fondamentali dei minori, come il diritto alla parità di trattamento e quello a poter avere una vita privata e familiare”.
Quasi dieci anni prima, nel febbraio 2013, la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva accolto il ricorso portato avanti da una donna omosessuale austriaca che, nel suo Paese, si era vista negare la possibilità di adottare il figlio della propria convivente. Tale negazione, aveva sottolineato la Corte di Strasburgo, costituisce discriminazione per orientamento sessuale e violazione del diritto al rispetto della vita familiare.