Le donne vivono più a lungo ma peggio, la causa è soprattutto sociale
- 21/05/2024
- Popolazione
Meglio un giorno da leone o cento da pecora? Un quesito universale che non ha una risposta univoca: ognuno dà la sua, in base al proprio modo di intendere la vita. Sicuramente, però, a nessuno piace invecchiare male. Altre due certezze: l’aspettativa di vita si sta alzando e le donne vivono di più degli uomini (per l’Oms, gli uomini vivono in media 69,8 anni mentre le donne 74,2).
Di più, ma peggio come riporta un nuovo studio pubblicato su Lancet dove si dimostra che mediamente le donne hanno una salute peggiore di quella degli uomini, soprattutto quando si diventa anziani. Per lo studio, i ricercatori hanno utilizzato il Global Burden of Disease Study 2021, un database che si concentra sulle circa 20 patologie più gravi per la salute sopra i 10 anni di vita in oltre 200 Paesi.
Dopo aver raccolto e analizzato i risultati, Lancet lancia un monito alle istituzioni: “Le notevoli differenze di salute tra donne e uomini evidenziano l’urgente necessità di politiche basate su dati specifici per sesso ed età”.
I risultati dello studio Lancet
Il fulcro dello studio sta nel fatto che le condizioni di salute vengono fortemente influenzate anche dal genere, che si riferisce a un costrutto sociale legato ai ruoli e ai comportamenti socialmente attribuiti di uomini e donne e di persone con diversità di genere, oltre che dal sesso, che determina i fattori biologici associati ai cromosomi sessuali e all’anatomia riproduttiva.
Ma quali sono le differenze più evidenti tra donne e uomini?
Per analizzare le differenze uomo-donna i ricercatori hanno utilizzato un indicatore chiamato Disability-Adjusted Life Years (Daly), che è la somma degli anni di vita persi a causa della mortalità prematura e degli anni vissuti con una disabilità. Nonostante la generale condizione peggiore delle donne, i tassi di anni di vita sana persi a causa di una malattia sono risultati più alti negli uomini in 13 delle 20 condizioni analizzate.
Le sette patologie con Daly più elevati nelle donne rispetto agli uomini erano invece: lombalgia, depressione, mal di testa, ansia, disturbi muscoloscheletrici, demenza e HIV.
Quando si crea il gap
Le differenze uomo-donna sotto il profilo patologico iniziano a maturare nell’età adolescenziale “un’età cruciale, quando le norme e gli atteggiamenti di genere si intensificano e la pubertà rimodella la percezione di sé”, scrivono gli autori dello studio insistendo sulla necessità di indagare oltre il sesso, approfondendo la tematica di genere.
Anche un’analisi sull’uso dello smartphone in età adolescenziale o infantile mostrava un forte gender gap tra bambini e bambine.
Una ricerca condotta da Sapiens Lab, organizzazione no profit che studia la salute mentale, ha intervistato quasi 28.000 giovani tra i 18 ei 24 anni, in quattro continenti.
La ricerca ha dato dei risultati netti: i bambini che hanno ricevuto i telefoni in giovane età hanno una salute mentale peggiore, anche dopo essersi adattati agli incidenti segnalati di traumi infantili. Nello specifico:
- tra le bambine che hanno ricevuto il loro primo smartphone all’età di 6 anni la percentuale con problemi di salute mentale è del 74%;
- tra le bambine che hanno ricevuto il loro primo telefonino a 18 anni, la percentuale crolla fino al 46%;
- i bambini che hanno ricevuto lo smartphone già a 6 anni hanno avuto problemi di salute mentale nel 42% dei casi;
- i bambini che hanno ricevuto il cellulare a 18 anni, invece, hanno riscontrato problemi di salute mentale nel 36% dei casi.
Pochi studi sulla salute delle donne
Gli autori dello studio Lancet ammettono che l’indagine ha i suoi limiti perché risponde a un quadro binario (femminile o maschile) che non rispecchia la complessità della tematica. Risulta però evidente che dal 1990 al 2021 ci sono stati pochi progressi nel colmare il divario sanitario tra uomini e donne. Basti pensare che prima del 1993, le donne erano escluse dalle sperimentazioni cliniche, fatta eccezione per alcune patologie femminili.
Ancora oggi, la percentuale di donne coinvolte negli studi clinici è meno del 20% e in circa l’80% degli studi effettuati in vitro su modelli cellulari non viene specificato il sesso di origine del donatore. Antonella Santuccione Chadha, neuroscienziata, co-fondatrice e Ceo del Women’s Brain Project di ZurigoAl, ospite al Longevity Summit di Milano, ha spiegato: “La scienza ha condotto pochissimi studi sulla salute femminile, limitandosi alla cosiddetta ‘medicina bikini’, concentrata sull’apparato riproduttivo: utero, ovaie e seno”.
La tematica è quanto mai attuale in Italia, dove nelle ultime settimane è tornato ad accendersi il dibattito sul diritto all’aborto. Sul punto, l’onorevole Sportiello ha sostenuto la necessità di riconsiderare i corpi delle donne, che non hanno la sola funzione di procreare, ribandendo che “la maternità non è l’unica scelta”.
“Le donne non presentano tante patologie pericolose per la vita quanto gli uomini, ma soffrono in modo sproporzionato di condizioni che riducono significativamente la loro qualità di vita”, ha spiegato ad Euronews Health Sara Guila Fidel Kinori, psicologa clinica e membro del comitato per la salute delle donne presso l’ospedale Vall d’Hebron di Barcellona, in Spagna.
Dunque, contrariamente a quanto si possa pensare, la matrice predominante è quella di genere, non quella sessuale. “Le donne – spiega ancora Fidel Kinori – non sono biologicamente diverse dagli uomini ma la cultura e il genere determinano queste differenze, motivo per cui dobbiamo concentrarci e indagare su questi determinanti culturali e socioeconomici che ci differenziano”.
Il contesto sociale
I risultati dello studio Lancet fanno luce sul gender gap che persiste in diversi campi, da quello domestico a quello lavorativo.
In Italia, e non solo, siamo ancora lontani dallo scardinare gli antichi retaggi che vedono la donna come responsabile della cura della famiglia. La differenza emerge chiaramente dai dati Ocse: le donne impiegano mediamente 4,73 ore al giorno per il lavoro domestico e di cura, gli uomini 1,84 ore. La conseguenza più evidente è quella professionale, con una donna su cinque costretta a lasciare il lavoro dopo la nascita del primo figlio.
Corollario: la dipendenza economico-finanziaria delle donne che spesso non solo non hanno potuto affermarsi secondo le proprie scelte di carriera, ma, non disponendo di propri redditi, non hanno neanche libertà di spesa. Un contesto che pesa sull’autodeterminazione ma anche sul benessere mentale e fisico delle donne.
Possiamo riassumere efficacemente dicendo che il gender gap lavorativo è solo la punta dell’iceberg. A livello del mare, c’è il gender gap domestico. Sott’acqua, il background culturale difficile da cambiare, anche se in tal senso ci sono dei timidi miglioramenti.
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