Aspettativa di vita, fino a 33 anni in meno per chi nasce “nel posto sbagliato”: il report dell’Oms
- 09/05/2025
- Popolazione
Vivere 33 anni in meno solo perché si è nati nel “posto sbagliato” del mondo. È una delle statistiche più scioccanti emerse dal nuovo World Report on Social Determinants of Health Equity, redatto dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Un numero che basta da solo a spiegare quanto le disuguaglianze sociali pesino sulla salute. Non si tratta di un destino scritto nel Dna, ma di una traiettoria tracciata da condizioni ben più tangibili: la qualità dell’abitazione, l’accesso all’istruzione, le opportunità di lavoro, la protezione sociale, la discriminazione sistemica.
Il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, lo ha detto chiaramente: “Il nostro mondo è disuguale. Il luogo in cui nasciamo, cresciamo, viviamo, lavoriamo e invecchiamo influenza significativamente la nostra salute e il nostro benessere”. Il report è il primo aggiornamento globale su questo tema dal 2008, anno in cui una commissione dell’Oms aveva lanciato l’allarme: “l’ingiustizia sociale uccide su larga scala”. A 17 anni di distanza, l’analisi conferma che quella previsione si sta avverando. E i target fissati per il 2040 — ridurre le disparità tra e dentro i Paesi in termini di aspettativa di vita e mortalità infantile e materna — sono oggi a rischio mancato raggiungimento.
La salute segue la scala sociale
L’aspettativa di vita non è distribuita equamente, ma obbedisce a un rigido “gradiente sociale”. Chi vive in aree più povere ha redditi più bassi, minori livelli di istruzione e peggiori condizioni abitative. Tutti questi fattori, messi insieme, si traducono in un minore numero di anni di vita in buona salute. È una legge non scritta, ma verificata nei dati: la salute peggiora man mano che si scende nella scala socioeconomica. Questo fenomeno vale nei Paesi a basso reddito come in quelli ad alto reddito, e si aggrava ulteriormente nei gruppi colpiti da discriminazioni storiche o sistemiche.
Uno degli esempi più chiari riguarda le popolazioni indigene. Nonostante vivano in Paesi sviluppati, spesso hanno un’aspettativa di vita significativamente inferiore rispetto ai cittadini non indigeni. Discriminazione, marginalizzazione e svantaggio sociale si sommano, accorciando l’orizzonte di vita. Il report sottolinea che queste disparità non sono accidentali, ma il prodotto di politiche, sistemi e norme che perpetuano l’ingiustizia sociale.
E il problema inizia già alla nascita. I bambini nati nei Paesi più poveri hanno 13 volte più probabilità di morire prima dei cinque anni rispetto ai coetanei dei Paesi più ricchi. Eppure, secondo i modelli dell’Oms, 1,8 milioni di vite infantili potrebbero essere salvate ogni anno semplicemente colmando il divario tra le fasce più ricche e quelle più povere nei Paesi a basso e medio reddito.
Maternità, clima e protezione sociale: tre sfide per l’equità sanitaria
Il quadro si complica ulteriormente se si osservano i dati relativi alla salute materna. Tra il 2000 e il 2023, la mortalità materna è diminuita del 40% a livello globale, ma ancora oggi il 94% delle morti in gravidanza si concentra nei Paesi a basso e medio reddito. Anche in contesti avanzati, le diseguaglianze persistono: le donne indigene, per esempio, hanno fino a tre volte più probabilità di morire durante il parto rispetto ad altre. In generale, dove c’è più diseguaglianza di genere — alimentata anche da fenomeni come il matrimonio infantile — ci sono anche più morti evitabili.
A peggiorare il quadro concorrono altre due variabili globali: il cambiamento climatico e l’assenza di coperture previdenziali. L’Oms stima che nei prossimi cinque anni il climate change spingerà tra i 68 e i 135 milioni di persone in povertà estrema, peggiorando ulteriormente gli indicatori di salute. E mentre le emergenze ambientali avanzano, 3,8 miliardi di persone nel mondo restano escluse da un’adeguata protezione sociale: nessun congedo retribuito, nessun sussidio per i figli, nessuna tutela in caso di malattia. L’impatto sulla salute, in termini di stress cronico, alimentazione carente, esposizione a rischi ambientali e impossibilità di accedere a cure tempestive, è devastante.
Il rapporto è un invito all’azione collettiva. Non bastano gli interventi del settore sanitario. Servono politiche pubbliche coordinate, investimenti in infrastrutture sociali, piattaforme interministeriali e strategie di governance partecipativa. L’Oms chiede a governi, accademici, società civile e privati di unire le forze per abbattere i muri che dividono la salute dai suoi determinanti reali.